Cortellesi, l’ironia e le fiabe

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La notizia: Paola Cortellesi fa un monologo, invitata dalla Luiss, in occasione dell’apertura dell’anno accademico. Lo fa, come già tante volte ha fatto, sugli stereotipi sessisti. In questo caso il suo intervento è sulle fiabe. Lo veniamo a sapere dalla stampa, ma poiché non circolano né video né registrazioni dobbiamo accontentarci delle stesse identiche frasi riportate da tutti. “Siamo sicuri che se Biancaneve fosse stata una cozza il cacciatore l’avrebbe salvata lo stesso?. Perché il principe ha bisogno di una scarpetta per riconoscere Cenerentola, non poteva guardarla in faccia?” E ancora: “Biancaneve faceva la colf ai sette nani! “.

Paola Cortellesi e il monologo all’Università sul sessismo nelle fiabe: “Biancaneve faceva la colf ai sette nani”

Su queste tracce esili da due giorni si discute, accusando Cortellesi, senza averla ascoltata, da un lato di non conoscere la morfologia della fiaba e Vladimir Propp (cit) dall’altro di non rispettare la tradizione che le fiabe incarnano. Accuse che tengono insieme, in modo bipartisan, opposti schieramenti politici. Non so se ci avete fatto caso, infatti, ma ogni volta che nel dibattito pubblico entrano in scena le fiabe la gazzarra è assicurata, ci si compatta sulla difesa di una tradizione critica o, semplicemente, di una certa iconografia che si è conosciuto da bambini (c’è chi pensa che la vera Biancaneve sia quella Disney per capirsi). Comunque, in ogni caso, Disney o Propp, si dice, le fiabe non si toccano.

Ora, invece, le fiabe, si toccano eccome, si sono sempre toccate, smontate, riscritte, piegate alla morale dei propri tempi e allora cosa c’è che non non va se a farlo è Cortellesi?

Torniamo alle poche battute circolate sulla sua lectio: non le sentiamo certo per la prima volta, sono espressione di una tradizione di critica popolare e femminista alle versioni più diffuse delle fiabe della tradizione, che Cortellesi usa per portare l’attenzione su uno dei temi che evidentemente le stanno più a cuore da anni (penso al suo monologo ai David di Donatello del 2018 sul linguaggio sessista), quello delle disparità di genere e della necessità di una educazione larga, popolare e democratica su questi temi. Una educazione larga popolare e democratica che non disdegna la battuta, la semplificazione (non la banalizzazione). Quale occasione migliore dell’apertura di un anno accademico di fronte a centinaia, immagino, di ragazze e ragazzi? Questa sarebbe la fine della storia se non fossimo un paese ossessionato dal passato, che cita Italo Calvino e il suo “catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna” riferito alle fiabe, ma mai il suo: “avrei dato tutto Proust in cambio d’una nuova variante del “ciuchino caca-zecchini” oppure “mi poneva di fronte alla sua proprietà più segreta: la sua infinita varietà ed infinita ripetizione”. Varianti, che sono il prodotto dei tempi e dei luoghi in cui vengono narrate, le fiabe non solo come espressione dell’inconscio ma di una enciclopedia popolare di saperi per una civiltà alletterata che le ha sempre usate come parte dei messaggi educativi, non solo per i bambini ma anche per gli adulti come ci ha insegnato Eric Havelock riferendosi a Omero. Perché questo continuo modificarsi, queste continue varianti, dovrebbero cessare? E quale la versione da fissare, sempre citando Calvino, quella “confinata in dotte monografie”? Le fiabe sono sempre esito di un processo di riscrittura, lo stesso Calvino le ha rielaborate per renderle comprensibili a tutti, a tutte nell’Italia degli anni Cinquanta. Esiste, invece, una continua e incessante negoziazione di storie e significati di codifiche e di decodifiche, anche in una prospettiva di genere. Leggete i bellissimi libri di Giusi Marchetta, Principesse (add), e di Simona Vinci, Mai più sola nel bosco, (Feltrinelli), se volete farvi un’idea degli infiniti modi in cui le eroine femminili delle fiabe (e delle favole) possono essere lette in modi addirittura opposti e sempre nuovi.

Del resto la storia della critica di genere alle fiabe è antica, ricordo soltanto, per restare in Italia, Elena Gianini Belotti e il suo Dalla parte delle bambine (1973). Ma anche il più recente M. L. Von Franz, Il femminile nella fiaba, (Bollati Boringhieri) del 2012. Non è bello fare elenchi di libri da leggere, ma non è bello nemmeno imbastire un dibattito su due frasi orecchiate. Non potendo entrare nel merito, dunque, sul metodo possiamo dire che oggi abbiamo la fortuna di poter leggere e scomporre le fiabe anche in una prospettiva femminista, è un passo avanti, non indietro. Non dimentichiamocelo.

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