Argentina, sconfitto Milei: non passa la legge omnibus con le sue attese riforme. E se la prende con la diva del pop

Pubblicità
Pubblicità

In soli 27 giorni di governo Javier Milei è riuscito a incassare la sua prima sconfitta. E non si tratta di una sconfitta qualsiasi. Si è visto dimezzare e poi cancellare la legge regina del suo programma politico, quella chiamata Omnibus per la vastità di temi e argomenti che racchiudeva. In tutto 664 articoli che spaziavano dalla riforma del sistema politico al controllo delle proteste sociali fino all’autorizzazione alla rivendita dei biglietti per gli eventi. Presentata come la norma che avrebbe rivoluzionato la nuova Argentina fin dentro le sue fondamenta, ha perso forza e contenuti nel suo cammino legislativo e alla fine è stata cancellata perché scaduti i termini per approvarla.

Javier Milei nel salotto di Nicola Porro: “Lo Stato è il nemico, va eliminato”. E si scusa con Papa Francesco

Il cammino della legge

Il suo iter inizia il 9 gennaio. Il governo fa la voce grossa. Annuncia che il “suo contenuto non è negoziabile”. La presenta in Parlamento ma deve subito sfoltirla perché solo alcuni articoli possono passare per decreto, la maggioranza deve ottenere il voto dell’aula. Nelle stanze e i corridoi del Senato iniziano le trattative per raccogliere una maggioranza sicura. Il partito di Milei, La Libertad Avanza, ha solo 38 deputati su 257. Ma raccoglie consensi sufficienti a superare il primo scoglio. Assicurano l’appoggio il Pro che nel 2015 ha portato alla presidenza Mauricio Macri, l’Unione Civica Radicale dei socialdemocratici, alcuni settori dei peronisti e un drappello di deputati delle forze regionali. Il pallottoliere dice che ci sono 144 voti a favore e 109 contrari.

La legge Omnibus, chiamata pomposamente Legge delle Basi e dei Punti di Partenza per la Libertà degli Argentini, è monca rispetto all’originale ma conserva ancora lo spirito su cui è stata concepita. Ottiene una prima approvazione. Ma non basta. Il tempo vola, ci sono scadenze da rispettare. Il governo convoca delle sessioni straordinarie il 26 dicembre e il 31 gennaio. Include altri 11 temi che il Congresso doveva già discutere. Si lavora e si tratta per una proroga fino al 15 febbraio. Un po’ di respiro per evitare nuovi inciampi. Niente da fare: non viene approvato alcun punto di quelli presentati.

Fuori dai Palazzi, per strada, tutta la maratona legislativa viene seguita da una folla di manifestanti che scende in piazza, vigila davanti al Congresso, segue le dirette tv nel frattempo ottenute dall’opposizione. È in ballo il futuro del Paese, si sta mettendo ai voti la grande legge che disegnerà la nuova Argentina. La ministra dell’Interno agita lo spettro del nuovo provvedimento che autorizza la polizia a intervenire con la forza per sciogliere i blocchi stradali e far pagare ai responsabili i costi per gli straordinari degli agenti e gli eventuali danni in caso di incidenti.

Il colpo di scena

Si arriva al 6 febbraio. E qui c’è l’ultimo colpo di scena. Il presidente della Camera, Martín Menem annuncia: “La sessione aggiornata”. Nell’aula si sentono prima qualche mormorio, poi dei timidi applausi che diventano sempre più forti fino a una vera ovazione nel settore dell’opposizione. Tutti capiscono che il governo non riuscito a raccogliere i voti sufficienti. È la bocciatura della legge omnibus. Fallisce anche il tentativo estremo di convocare delle sessioni straordinarie. Il tempo è scaduto mercoledì scorso. La norma torna al punto di partenza. Si deve ricominciare tutto daccapo.

Il presidente è furibondo. Si trova in Israele, sta per andare a Roma dove vedrà Mattarella, Meloni e anche il Papa con il quale si scuserà per gli insulti che gli aveva rivolto prima e dopo essere stato eletto. Scrive sui social, in stampatello: “Eccoli i nemici dell’Argentina migliore”. Quindi fa filtrare la voce secondo la quale è stato lui stesso a far naufragare il disegno di legge quando i deputati hanno iniziato a “smembrare” il progetto. Al Congresso gli fanno eco i suoi deputati che parlano di “imboscata”, di opposizioni che “non rispettano ciò che il popolo ha votato”.

La diva del pop

Milei sposta allora il tiro sulla sua nemica del momento. Si chiama Mariana Lali Espósito. È una diva del pop, con un largo seguito su Instagram. Il presidente non la sopporta perché incarna tutto ciò che lui odia: è progressista, femminista, favorevole all’aborto, difende le diversità sessuali.

La chiama “parassita” perché usufruisce dei contributi dello Stato per allestire i suoi concerti. Una furia cresciuta con i giorni. Lei è stata la prima ad aver bollato la vittoria dell’estremista di destra. “Che tristezza”, aveva scritto sui social. Lui ha insistito con nuovi insulti. Fino alla replica della cantante su X (@lalioficial) che lo ha mandato su tutte le furie: “Contro l’odio, le bugie, le fake news”, scrive, sopra il meme che la rappresenta con due dita medie alzate.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *