Destra e censura: la voce del potere

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La libertà d’espressione è il termometro delle democrazie. Ne registra la buona salute, o all’opposto gli stati febbrili. E in Italia — benché non soltanto in Italia — la febbre sale, mentre la democrazia s’ammala. Succede lentamente, goccia a goccia, senza rumor di sciabole né l’ordine d’un coprifuoco. Forse per questo ci facciamo meno caso. Ma gli episodi sono ormai molteplici, un lungo corteo funebre dietro la salma del dissenso, dell’opinione discordante rispetto alla voce del potere.

Lasciamo da parte gli antefatti più remoti, come il decreto sui rave party che ha battezzato l’avvio della legislatura. «Raduni pericolosi», così li definisce: evidentemente la musica techno fa male alla salute, è ok soltanto Sanremo.

Mettiamo piuttosto in fila le vicende più recenti, quelle che hanno spinto la Federazione nazionale della stampa, i Comitati di redazione, l’Unione dei giornalisti Rai a diramare un comunicato che suona altresì come un allarme.

Dopo la proposta di legge Balboni (ammende smisurate per la diffamazione) e la stretta di Nordio sulle intercettazioni, arriva il divieto di pubblicare le ordinanze cautelari, con buona pace della libertà d’informazione. Che per i giornalisti è un diritto ma al contempo un dovere, un servizio reso al pubblico.

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Ma a quanto pare il pubblico (nel senso di pubblico potere) ha invece l’informazione in gran dispetto, specie se irriverente, non ortodossa — libera, insomma. Così, il ministro Sangiuliano invia una diffida a Un giorno da pecora, la trasmissione di Cucciari e Lauro. Lo stesso ministro si sarebbe poi adirato per la satira di Virginia Raffaele su Rai 1.

FdI deposita un’interrogazione presso la commissione di vigilanza Rai, mettendo sotto tiro Report, per le puntate sulle famiglie di La Russa e di Meloni. Il Consiglio dei ministri s’inventa il reato di «non violenza», che punisce i detenuti che rifiutino il cibo o l’ora d’aria (ne ha parlato Luigi Manconi).

La Camera approva la legge contro gli «imbrattatori», i ragazzi di Ultima generazione che spruzzano vernice lavabile sui monumenti: fino a 60 mila euro di sanzione. Anche se un giudice a Bologna ha sentenziato che la loro causa — il clima, che minaccia la sopravvivenza stessa della Terra — vanta un’indubbia valenza d’ordine morale e sociale.

Nel marzo 2022 un convegno dell’Istituto Bruno Leoni discuteva di «seconda giovinezza» della censura. Sennonché la censura ormai s’esprime in forme più oblique, più indirette, rispetto al Minculpop. Agisce attraverso la promozione degli amici — di chi canta nel coro — al vertice delle più importanti istituzioni culturali; e al contempo nel trasferimento, nel deferimento, nel demansionamento dei nemici.

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Chi non accetta il verbo deve fuggire altrove, com’è accaduto a molti volti famosi della Rai: Fazio, Berlinguer, Annunziata e via elencando. D’altronde è un vecchio sistema, illustrato già da Béranger, poeta popolare francese vissuto al tempo della Restaurazione: «Io non vivo, che per scrivere dei canti. Ma se voi, Monsignore, mi togliete il posto, scriverò dei canti per vivere».

Tira una brutta aria, insomma. E non solo alle nostre latitudini. Secondo Reporters sans frontières, nel 2023 la libertà di stampa è peggiorata in 31 Paesi. Amnesty International aveva già denunziato la crisi della libertà d’espressione in conseguenza della pandemia da Covid 19.

Persino la Francia, patria di Voltaire, si è distinta per un insieme di misure repressive: divieto di manifestare contro i mega bacini idrici di Deux-Sèvres, contro l’Alta velocità Torino-Lione, contro la guerra d’Israele in Palestina. E i giornalisti subiscono minacce e intimidazioni ovunque (721 casi in Italia nel 2022).

Eppure manca una reazione, un moto popolare di protesta. Perché? In parte perché è impossibile opporsi al vento della storia: lungo la corsa dei millenni la democrazia rappresenta un’eccezione, mentre in questa stagione di nazionalismi bellicosi sta tornando in auge il primato della regola, dell’autorità senza controlli, senza contrappesi.

In parte perché siamo immersi nell’era della solitudine di massa, ciascuno isolato dal consorzio umano dinanzi al suo computer; e la solitudine genera sottomissione, diceva già Foucault.

Rimane la denuncia contro il «pensiero unico», ribadita da Mattarella a Pesaro, il 20 gennaio. Ma di questi tempi il denunciante rischia a sua volta una denuncia.

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