Il night club che ha stregato Johnny Depp e i Maneskin. Sior Mirkaccio: “Siamo l’anti Only Fans”

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Quando Mirko Dettori va in scena come Sior Mirkaccio, può trasformarsi nell’uomo forzuto o nella donna baffuta. Suona Duke Ellington al piano che nel 1913 apparteneva a Benedetti Michelangeli. Riaccende la scena artistica di un secolo fa. È stato un rapper quindicenne, spalla dei 99 Posse, un dj hip hop in una radio antagonista, a teatro con Lello Arena per un Capitan Fracassa. Da sei anni a Porta Labicana anima con la socia sciantosa Madame de Freitas La Conventicola degli Ultramoderni, un posto difforme e dissonante rispetto all’aria che tira, fra il tabarin inizio 900 e il night club.

Prima canzone alle 22.30, ultima alle cinque del mattino. In mezzo: la rivista, il cafè chantant, l’America anni 20, le macchiette napoletane, numeri di Petrolini, maghi, lenti di Fred Bongusto. Sta per pubblicare i suoi pezzi. Non su disco. In un libro con il QR code. Tanta irrequietezza, dice, viene forse dal fatto di essere stato concepito su una sedia a dondolo, “me l’ha detto mia madre, credo che avesse una vita sessuale entusiasmante”.

Com’era casa Dettori?
“La musica non era considerata seria. Il mio è un interesse inspiegabile, senza alcun tipo di stimolo. Chiesi il pianoforte alle scuole medie, me lo regalarono per l’esame di maturità. Il nonno mi aveva procurato una tastierina, fu motivo di lite. Papà era un bancario di grande cultura, un esperto del Risorgimento, vedeva la musica come una distrazione. Forse per conflitto, scoprii che era il mio modo di comunicare. Fingevo di studiare Economia, quando mia madre usciva mi attaccavo al piano. Finché mi dissi che non volevo più fare la vita del vigliacco”.

Come li ha convinti?
“Non li ho convinti. Ho smesso di chiedere denaro e sono andato a lavorare per pagarmi le lezioni. Ho fatto il sondaggista per 30mila lire, il venditore di automobili odiandole, senza manco avere la patente, il presentatore di strip-tease nella bassa Bresciana due sere a settimana, un vero saloon”.

Cosa ha imparato al saloon?
“A gestire le luci, a mixare la musica, a sviluppare la parlantina per stare sei ore di fila davanti al pubblico. Dovevo convincerli, mandarli nel privé, il locale ci guadagnava di più. Ho imparato a trattare le cento persone di un sexy bar a Palazzolo d’Oglio come fosse stata la folla dell’Arena di Verona. Anche il pubblico più sparuto e remoto ha una dignità e deve essere servito in purezza da un artista”.

Come si vende una macchina, odiandola?
“Erano Fiat, la gente veniva perché già voleva comprarne. Ma ero un disastro, incapace di tirare bidoni. I venditori veri ti fanno comprare quello di cui non hai bisogno. I colleghi mi guardavano strano perché trattavo bene gli immigrati”.

Oggi cosa vende?
“Niente. Non penso alla gente in termini di target o gregge. Vendere l’arte significa svilirla. Direi casomai che veniamo ripagati per l’emozione offerta. Facciamo quello che amiamo da bambini. Quasi tutte le persone che si esibiscono qui, hanno avuto un’infanzia in cui non sono state accettate in famiglia. A scuola ci siamo ritagliati il ruolo dei diversi, quelli strani, che non gli piaceva il calcio, non si atteggiavano per rimorchiare. La cosa più bella è la telefonata di chi mi vede suonare e mi vuole al suo matrimonio. Ho trent’anni di carriera e ci vado, niente mi ha commosso più di uno zio e una zia dello sposo che non si parlavano più, e hanno ballato grazie a me. Due di Andria, che manco conoscevo, capisci?”.

Che tipo di pubblico viene qui?
“Ragazzi di vent’anni e pensionati, punk con la cresta verde e gagà con i capelli impomatati, compagnie di ragazze, coppie etero, gay, lesbiche, che forse trovano in questo intrattenimento il fascino di un rimorchio d’antan che resiste nell’immaginario. Eppure cantiamo pezzi da cafè chantant, con la poetica dell’uomo piacione che parla di gelosia e di una donna da accudire. La gente passa e sente di essere in un tempo parallelo, dove è possibile ascoltare pezzi del periodo dei telefoni bianchi in un quartiere di sinistra. Un repertorio purificato dall’effetto sociale richiesto dall’industria del regime. Il varietà è da sempre fluido: il trucco, il costume, la messinscena di icone che fanno parte di una cultura queen, come Wanda Osiris. Cantiamo al lume di candela, per riscoprire l’approccio romantico mortificato da OnlyFans”.

Il quartiere racconta che una sera è venuto Johnny Depp. Com’è andata?
“E che ne so, me l’hanno detto. Pare fosse camuffato. Ne passano parecchie di celebrità. Attrici, rapper, alcuni non li riconosco. Quando sono venuti i Måneskin, li ho visti ma non ci siamo nemmeno salutati. Il mio piacere è che artisti famosi possano star qua senza che nessuno gli rompa i coglioni, come un turista giapponese del giovedì. Mi dà l’idea di averli con tutto il loro pubblico, e sogno di contaminarli, che vadano via portandosi qualcosa. Guardi le pareti. Non c’è nemmeno una fotografia di gente famosa che è passata. Le foto, le mettono le pizzerie”.

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