In Egitto si negozia la tregua, impasse all’Onu sul cessate il fuoco

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Mentre i bombardamenti israeliani colpiscono ancora una volta Jabalia e Khan Yunis riempiendo i social di sangue e morte, all’Onu si discute sulle parole. Si lima e si rimanda, si pesa e si contrappesa ma non si decide, e così alla fine si rimanda: ancora una volta è saltato il voto previsto ieri nel Consiglio di sicurezza su un testo di risoluzione condiviso, capace di superare le forche caudine del veto imponendo finalmente di far tacere le armi a Gaza.

I delegati ci riproveranno oggi. È un lavoro certosino e spossante che spacca il capello della diplomazia mentre il conto dei palestinesi uccisi dall’operazione militare israeliana ha raggiunto la cifra di 20mila: «Una tragedia», dice lo stesso presidente Usa Joe Biden che per due volte ha imposto il veto a testi di risoluzioni non sufficientemente espliciti nel condannare Hamas per l’attacco terrorista del 7 ottobre, da cui è nata questa tragedia.

La bozza a cui si lavora ha eliminato le parole “cessate il fuoco” sostituendole, secondo il Washington Post che l’ha visionata, con «urgente sospensione delle ostilità per permettere un accesso umanitario sicuro e senza ostacoli». Ma non è bastato, per ora. La corsa contro il tempo è una priorità per tutti, ma le parole sono sostanza e la difficoltà di trovare una formula in grado di accontentare almeno nove dei quindici membri senza sollevare il veto di uno dei cinque membri permanenti (Usa, Russia, Cina, Francia e Regno Unito) corrisponde alla complessità di impegnare l’Onu su una decisione equilibrata. Una decisione che soddisfi l’urgenza di salvare le vite dei civili palestinesi e degli ostaggi israeliani conciliando le aspettative dei Paesi occidentali e di Israele con quelle dei Paesi che sostengono la causa palestinese e la stessa Hamas.

I primi non possono cedere un millimetro dal garantire il diritto alla difesa di Israele da Hamas che il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, intende perseguire «fino alla fine. Continueremo la guerra fino alla distruzione di Hamas, fino alla vittoria. Chiunque pensi che ci fermeremo è distaccato dalla realtà». I secondi pretendono invece un cessate il fuoco permanente per fermare la strage che in due mesi e mezzo ha quadruplicato i bambini uccisi dai russi in Ucraina in due anni. Hamas lo pretende come condizione per liberare tutti i 108 ostaggi vivi e restituire i 29 corpi. Israele invece è disposto a concedere solo una tregua di una settimana in cambio di 40 ostaggi tra donne, bambini e feriti, ma Hamas ha rifiutato l’offerta.

Ecco perché «ci vorrebbe un miracolo», dice un negoziatore dell’Onu alla Bbc, per trovare una formula che emulsioni acqua e olio. Ma nel frattempo le trattative vanno avanti al di fuori delle mura dell’Onu, e la decisione di rimandare il voto nel Palazzo di vetro sarebbe proprio un tentativo di dare altro tempo alla diplomazia. Ieri il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, è volato in Egitto per discutere con il ministro dell’Intelligence egiziano Abbas Kamel di «cessare l’aggressione e la guerra per preparare un accordo per liberare ostaggi e prigionieri e porre fine all’assedio sulla Striscia di Gaza». Un volo preceduto dall’incontro a Doha tra Haniyeh e il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian. Qatar ed Egitto sono i principali mediatori del possibile nuovo accordo con Israele, che sarebbe disposto a concedere una nuova tregua umanitaria in cambio di 40 ostaggi ma non certo la fine delle ostilità con Hamas.

Non mancano i segnali positivi né quelli negativi. «Questo non è il momento di pause, è il momento delle decisioni», ha twittato il ministro israeliano della Sicurezza, Itamar Ben Gvir. Ma il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa, John Kirby, ha definito «molto seri» i negoziati. E per la prima volta dal 7 ottobre, in Israele non sono squillati allarmi: per ventiquattr’ore nessun lancio di missili da Gaza.

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