L’olio di palma nel mirino dell’Ue per i biocarburanti. L’ira di Indonesia e Malesia

Pubblicità
Pubblicità

BANGKOK.  Da tempo Indonesia e Malesia, maggiori esportatori mondiali del sempre più contestato olio di palma, sono sul piede di guerra contro le norme di protezione ambientale della comunità europea. Ma ora Kuala Lumpur ha deciso di denunciare l’Unione europea direttamente all’Organizzazione mondiale del commercio, aprendo un nuovo fronte sull’utilizzo di un prodotto altamente richiesto da industrie alimentari e chimiche, oltre che fornire la base per gran parte dei biocarburanti.

Le proteste. Un sit-in a Kuala Lampur, in Malesia, contro le limitazioni dell’Ue ai biocarburanti da olio di palma. (foto: Mohod Rasfan/Afp via Getty Images) 
Proprio la benzina verde ricavata dall’olio delle piantagioni asiatiche è entrata sempre più nel mirino dell’Europa e nel 2018 il Parlamento di Bruxelles ha votato severe restrizioni per ridurne l’importazione a partire dal 2020 con divieto totale entro i prossimi 10 anni. Sensibilizzata da serrate campagne ambientaliste e determinata a raggiungere un’economia a emissioni zero entro il 2050 anche grazie all’uso dei biocarburanti, l’Europa attribuisce alle enormi piantagioni di palma la progressiva distruzione delle foreste pluviali di queste due nazioni del Sud-est asiatico considerate l’Amazzonia dell’Asia.

La deforestazione. L’olio di palma è la causa principale del disboscamento nelle foreste vergini (foto: Sarah Stewart via Getty Images) 
Bruxelles ha anche imposto sempre più severe certificazioni per autorizzare i paesi della comunità a fare scorta soltanto di olio proveniente da piantagioni sorte su terreni non deforestati. Nonostante la sua quota minima di questo mercato, il parere tecnico e politico dell’Europa potrebbe avere grande influenza sulle future decisioni di altri organismi internazionali di regolamentazione e controllo delle produzioni a rischio ambientale. Da qui i timori dei principali produttori.

I frutti. Il controllo di qualità in una fabbrica di Sepang, alle porte di Kuala Lumpur, in Malesia  (foto: Mohod Rasfan/Afp via Getty Images) 
L’arcipelago indonesiano e la Malesia costituiscono uno sterminato polmone verde che segue già da tempo la sorte del Brasile, con incendi spesso dolosi per preparare il terreno a piantagioni di palma ma anche di caucciù e altre piante a basso rilascio di ossigeno, senza contare insediamenti industriali e speculazioni edilizie. Nel solo arcipelago indonesiano – di gran lunga il numero uno tra i produttori del contestato olio – vanno in fumo una media di un milione di ettari l’anno, il 70% su suoli ricchi di minerali e il 30% nelle torbiere che immagazzinano il carbonio altrimenti trasformato in veleno per l’aria e l’ambiente.

Le piantagioni. Per la coltivazione di olio di palma sono scomparse ampie aree della foresta del Borneo (foto: STR/AFP via Getty Images)
  
Per paura di una spaventosa crisi industriale e di esportazione dovuta al Covid, una recente legge del governo di Giacarta chiamata “omnibus” ha perfino rimosso  la serie di norme di protezione degli alberi che erano state conquistate dopo lunghe battaglie degli ecologisti e degli abitanti di vaste aree forestali come Sumatra e Kalimantan, l’ex Borneo.

Olio di palma: l’olio della discordia alla ricerca della sostenibilità

Da sole Indonesia e Malesia riforniscono di olio l’85% dei mercati globali, soprattutto India e Cina. I paesi europei ne acquistano una minima parte e solo il 4% viene usato per biocarburanti, ma quest’anno si prevede un ulteriore drastico calo dell’8% nell’import, pari a circa 6,7 milioni di tonnellate, il più basso nell’ultimo decennio.

Le piantagioni. I braccianti nei campi di Pulau Carey, 80 km a ovest di Kuala Lampur, in Malesia (foto: Tengku Bahar/Afp via Getty Images)) 
Da qui la reazione dei due paesi asiatici che hanno investito miliardi nel business dell’olio usato anche per numerosi cosmetici e svariati prodotti alimentari nonostante le polemiche e le campagne che hanno esteso il boicottaggio contro molte industrie oggi propense a usare altre materie piuttosto che perdere progressivamente clientela.

(Infografica: IUCN.org 2018
Dopo aver tentato – ciascuno con i propri lobbisti – di convincere la comunità europea che i loro alberi di palma sorgono su terreni già deforestati prima delle norme di protezione, Indonesia e Malesia hanno deciso pochi giorni fa di fare fronte comune ed estendere nelle commissioni parlamentari europee una campagna tecnica e legale per dimostrare le loro ragioni. Ma contemporaneamente il governo di Kuala Lumpur ha anche annunciato di volersi affiancare alla causa presentata da Giacarta nel 2019 contro la Ue con un ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio, accusando in particolare Francia e Lituania di aver già imposto misure restrittive che violerebbero gli accordi internazionali di libero scambio.

Deforestazione in aumento nonostante gli impegni per porvi termine, ecco i risultati di uno studio

Oltre a sostenere che i biocarburanti a base di olio di palma non possono essere conteggiati tra le misure per abbassare le emissioni nocive, i malesi accusano Bruxelles di “conferire vantaggi ingiusti” ai produttori europei di alcune materie usate per i biocarburanti, come l’olio di colza e la soia. Preoccupazioni ambientali a parte, la vertenza tocca ordinamenti di mercato delicati e se la controversia non sarà risolta in sede Ue entro 60 giorni, l’Omc creerà un gruppo di esperti per esaminare il caso.

(foto: Saeed Khan/Afp via Getty Images) 
I lobbisti asiatici sostengono che l’abbattimento delle foreste pluviali per la produzione di biocarburanti non influisce né sui cambiamenti climatici né sullo sviluppo sostenibile di questi paesi. Con la diminuzione delle esportazioni nella comunità europea – spiegano – diminuiranno anche i prezzi, con la conseguenza che i paesi fuori dall’Unione europea – i maggiori consumatori come la Cina – ne acquisteranno di più senza andare troppo per il sottile con le verifiche sulla provenienza dell’olio, come fa Bruxelles. L’effetto domino si riverbererà – dicono – sulla stessa produzione europea degli altri olii vegetali per biocarburanti, che subiranno il peso della minore richiesta internazionale, vista la convenienza di comprare quelli più economici estratti dalla palma.

(Infografica: IUCN.org 2018) 
Secondo questa logica a perderci saranno le stesse compagnie che hanno ottenuto la cosiddetta “certificazione Red” dopo aver dimostrato che il loro prodotto non proviene da piantagioni sorte su terreni forestali, mentre gli speculatori continueranno a tagliare gli alberi per rifornire i mercati più permissivi sulle norme di impatto ecologico.

I laboratori. La Malaysian Palm Oil Board (MPOB) a Bangi, a Kuala Lumpur, dove si studia la composizione chimica dell’olio di palma (foto: Mohd Rasfan/Afp via Getty Images) 
Da tempo però le logiche di un mercato in espansione, specialmente quello europeo del biodiesel, sono condizionate dalla crescente sfiducia verso l’olio di palma in generale da parte dei consumatori sensibilizzati dalle conseguenze che queste nuove piantagioni hanno provocato non solo alle foreste vergini, ma agli stessi animali che le abitano come gli oranghi ormai in via di estinzione. La diffidenza è cresciuta col tempo considerando la difficoltà di verificare la correttezza di molte certificazioni di sostenibilità. In paesi di corruzione endemica, non sempre è infatti possibile stabilire se prima di piantare le palme i terreni scelti erano davvero incolti e brulli.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *