Mancano prof di matematica, Alessio Figalli: “Il mondo oggi vive di numeri e algoritmi. E si trova lavoro”

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Professori per caso. Finiti a insegnare matematica spesso dopo una manciata di esami in un’altra facoltà. E ritrovatisi in un incrocio perverso: una società che da un lato disdegna questa disciplina e dall’altro si abbandona mollemente fra le sue braccia, poggiando su di lei un mondo zeppo di tecnologie. Alessio Figalli sente che trovare una via d’uscita non è semplice. “Ma ripensare i programmi e la formazione dei professori oggi sarebbe opportuno”, conferma il direttore del centro di ricerca di matematica al Politecnico di Zurigo, vincitore della medaglia Fields nel 2018, nato a Roma 38 anni fa. 

Su Repubblica abbiamo affrontato il tema della carenza di insegnanti di matematica nelle scuole. Qual è il problema di questa disciplina?

“Non capirla è socialmente accettato, e questo è un errore. La matematica a volte può essere difficile, ma il livello che si insegna nelle scuole è raggiungibile da tutti”.   

Più la matematica è utile a una società intrisa di tecnologia, meno un matematico sarà invogliato a insegnare nelle scuole. Chi resterà in cattedra?

“Questo è un problema vero, che si fa sentire anche nelle università. Non sono solo i giganti come Google e Apple a cercare matematici, ma anche aziende di medie dimensioni, banche e tanto altro. Perché avventurarsi fra le incertezze di una carriera accademica, quando un privato è pronto ad assumerti subito, in modo stabile e con un buono stipendio? Se poi pensiamo non alle università, ma alle scuole, ecco che a insegnare matematica restano solo i devoti. O chi aveva fatto altri piani”. 

Cioè? 

“Per insegnare nelle scuole non c’è bisogno di avere una laurea in matematica. Basta aver fatto un certo numero di esami di matematica in qualunque altra facoltà. Può darsi che un laureato in biologia cambi idea e abbandoni la sua disciplina per insegnare matematica a scuola. Ma non è stato formato per quello. E’ una soluzione lontana dall’ideale”. 

Va ripensata la formazione degli insegnanti? 

“Sì, con serietà, mettendosi al tavolino. Una laurea di 5 anni in matematica non è veramente necessaria per insegnare nelle scuole. Basterebbe una triennale in matematica o fisica con un’integrazione centrata sulla didattica”.  

I programmi andrebbero aggiornati? 

“Solo in parte. Noi all’università li aggiorniamo in continuazione per restare in fase con le novità della ricerca, ma a scuola le basi possono restare le stesse. Potrebbero essere ritoccati dei temi specialistici che si affrontano al liceo, penso ad esempio allo studio della geometria dei solidi. Lì si potrebbe lavorare per avvicinare i programmi delle superiori a quelli delle università. Spesso quando mette piede in facoltà, uno studente si sente catapultato in un mondo tutto nuovo”. 

La Francia ha affidato la riforma dei programmi scolastici a un neuroscienziato specializzato nell’apprendimento della matematica, Stanislas Dehaene. Le scuole non potrebbero sfruttare i progressi nella conoscenza del cervello per insegnare meglio? 

“Certamente, ma credo che la matematica abbia soprattutto bisogno di spiegare ai suoi studenti perché è utile, affascinante e da sempre viene usata dall’uomo come strumento per spiegare il mondo. Chi fatica a imparare 6 per 8 può contare a uno a uno fino a 48, ma poi si accorgerà che le tabelline sono una scorciatoia, una semplificazione. E le cose da imparare a memoria in matematica sono davvero poche, rispetto ad altre discipline”. 

Lei che ricordo ha della scuola?

“Alle elementari avevo una maestra vicino alla pensione. Si era formata alle magistrali, usava metodi tradizionali, ma portò tutta la classe a capire i concetti importanti. In matematica è importante non saltare argomenti, perché una lacuna può avere facilmente ripercussioni sul resto del programma. E la calcolatrice andrebbe evitata il più possibile, perché allenarsi ad avere dimestichezza con i numeri è importante anche quando si fa il conto in pizzeria”. 

Oggi è più difficile insegnare matematica rispetto al passato? 

“Credo di sì. Da un lato i professori hanno perso l’autorità che avevano quando ero ragazzino io. Gli studenti sono stati deresponsabilizzati, vengono spesso giustificati per il loro poco impegno. Però capisco anche che crescono in un clima più cupo. Ai nostri tempi sapevi che andando bene a scuola la tua vita avrebbe comunque preso il verso giusto. Oggi ti chiedi a cosa serve studiare, se i laureati attorno a te sono spesso disoccupati e se i lavori spariscono a causa dell’intelligenza artificiale”.

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