Marco Giallini: “Compio 60 anni ma non festeggio. L’ultima volta avevo 18 anni ed eravamo io, Walter e il Banana”

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Il 4 aprile Marco Giallini compie 60 anni, una ricorrrenza importante che arriva subito prima il debutto televisivo della quinta stagione del suo Rocco Schiavone. “No, non me ne frega niente. È come quando avevo 35 anni, faccio la stessa caciara, dico le stesse cose, vado in motocicletta”. E a chi gli chiede se festeggerà risponde: “Il compleanno proprio non lo vedo… da quando avevo 18 anni. Eravamo in tre, mi ricordo: io, Walter e il ‘Banana’…”. E, per tornare su di uno dei suoi personaggi più famosi, quello nato dalla penna di Antonio Manzini dice: “Rocco Schiavone invecchia con me: non so se è una cosa bella o brutta, ma posso dire che a fare le passeggiate con le mani ‘in saccoccia’ mi ci trovo meglio che se devo correre. Ha un’evoluzione come tutti gli uomini di questa terra”.

Rocco Schiavone e il rigore contro il Liverpool, quanta romanità in trasferta

La quinta serie di Rocco Schiavone, in onda su RaiDue dal prossimo 5 aprile, potrebbe aiutare nel porci una domanda. Dove altro potrebbe capitare, se non fra queste immagini, che in un ospedale di Aosta il compagno di stanza di Schiavone, facendo un cruciverba, chieda ad alta voce per farsi dare una mano: “Chi non tirò il rigore in Roma-Liverpool del 1984?”.

Schiavone lo guarda allibito e, masticando, digrignando alla Giallini, risponde: “Falcao. Sai come se scrive?”. Quanta romanità in trasferta. Sana, dura, impietosa, sarcastica quanto può esserlo una poesia di Belli, anche più delle versioni offerte dal Sordi/ Marchese del Grillo che sogna Parigi, dove c’è Napoleone. Schiavone, ossia Giallini, sempre masticando il nulla, sempre digrignando e bofonchiando, non sogna Napoleone e non sogna neppure Aosta, dov’è stato riallocato per una specie di castigo funzionale. Stando male ovunque, Schiavone è in fondo più di una romanità in trasferta permanente o quasi. Se il vocabolo esistesse, potremmo dire che la sua è una “romaneschità” genetica, che travalica ogni logico senso di appartenenza, per inventarne uno assolutamente nuovo.

Tanto è vero che più che essere il rappresentante della città com’è oggi, sostenuto dall’amicizia con Sebastiano, Furio e Brizzio, il vicequestore Schiavone/Giallini è l’estensione di un momento imprecisato, teoricamente lontano nel tempo, in cui Roma era una Roma armata, dove la delinquenza si confondeva con la legge, dove la giustizia aveva sempre le ore contate, perché c’era sempre una motivazione aggiuntiva per aggirarla ed eventualmente trasformarla. Inquinando alla sua maniera i modi composti di un’Aosta attonita, Schiavone è un assassino incapace di perdonarsi.

Anni prima, a Roma, per vendetta, aveva ucciso il Baiocchi che gli aveva ammazzato la fidanzata. E poi per tutta la vita è stato perseguitato dal fratello, l’altro Baiocchi. Ognuno di questi personaggi, macchiato da infamie indicibili, racconta la romanissima disperazione, la romanissima disillusione e la romanissima confusione fra cinismo e autolesionismo che Schiavone traduce in un vernacolo quasi biascicato e incomprensibile, persino ai romani, volutamente estremo, perché usato come arma difensiva. Paradossalmente Schiavone è all’opposto di Ciccio Ingravallo, il molisano e gaddiano protagonista del “Pasticciaccio”. Uno diventa romano per forza, l’altro resta romano per forza. Ed entrambi, ognuno a modo suo, perdono la partita per una singolare forma di onestà.

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