Nell’inferno Azovstal l’assalto dei ceceni agli ultimi difensori

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MARIUPOL – Questa è l’Azovstal. Cumuli di macerie, palazzi distrutti, fischi di missili ed esplosioni. Da una parte le bandiere cecene. Dall’altra le ciminiere dell’acciaieria dalle quali si alzano enormi nubi di fumo nero causato dai colpi di artiglieria. Lì sotto c’è l’ultimo manipolo di mille soldati ucraini. “Nazisti – afferma il comandante ceceno che ci accompagna in questo inferno – siamo venuti qui per cacciarli”. Questo è il cuore della guerra in Ucraina. Questa è la battaglia della resa dei conti. Qui si decide la storia del conflitto. Da una parte i russi e le armate a loro leali. Dall’altra gli ucraini aiutati dall’Occidente. Fantasmi invisibili, asserragliati nei palazzoni e nei cunicoli di questa enorme industria ma ancora in grado di sparare. Qui si combatte ancora. Più forte che mai. È tutto grigio, grigi i muri dei capannoni sventrati e grigio il cielo sopra questa battaglia. Odore di polvere da sparo avvolge chi entra nella Azovstal. 

Per arrivare fino a qui ci sono volute diverse ore di macchina tra palazzi distrutti o bruciati, carcasse di mezzi militari ai lati delle strade e schivando i cadaveri dei soldati abbandonati sul terreno. Questo è quanto si vede entrando a Mariupol dal suo ingresso orientale ed avvicinandosi all’Azovstal, il grande centro di produzione metallurgica diventato l’ultimo avamposto dell’esercito ucraino assediato dai russi, dai ceceni e dalle milizie filorusse dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk. Per i soldati di Kiev a queste latitudini la guerra si sta mettendo male. Da settimane la città è ormai completamente circondata e gli ucraini si sono progressivamente ritirati per asserragliarsi nell’acciaieria, che fino a ieri rivendicavano di controllare in maniera completa. Oggi non possono più farlo. Due giorni fa i ceceni hanno lanciato un attacco per sfondare le linee nemiche e nella notte sono riusciti a impossessarsi di una ampia area dell’acciaieria. Appena arrivati hanno piantato le loro bandiere, rosse e verdi con al centro il volto di Ramzan Kadyrov, loro leader. Il messaggio è chiaro: questa zona è nostra. Tutt’intorno la guerra continua e non sembra poter finire a breve.


Per raggiungere l’Azovstal bisogna partite da Novazovsk, avamposto filorusso ad Est di Mariupol. Da qui, si imbocca una strada costeggiata da lunghe fila di tendoni che ospitano gli sfollati fuggiti dai bombardamenti a tappeto sul centro cittadini. Sull’altro senso di marcia viaggiano centinaia di automobili ai cui finestrini sono appesi teli bianchi. Sono i civili che fuggono da una città assediata e ormai ridotta a un cumulo di macerie. Avvicinandosi all’area urbana si passa attraverso villaggi fatti di case dai tetti a punta, che un tempo venivano utilizzate per la villeggiatura dalla classe medio alta. Oggi sono completamente deserti, distrutti. Quasi nessuna casa, grande o piccola, è stata risparmiata dalle bombe. Avanzando si nota subito come i simboli dell’ormai precedente amministrazione ucraina siano stati cancellati da chi attacca. Su molti palazzi sventolano bandiere russe. Ai lati della strada si incrociano interminabili file di carri armati parcheggiati ma con uomini a bordo, i cannoni puntati verso la città.


Appena entrati nell’area urbana di Mariupol si viene fermati a un posto di blocco. Non russo, bensì ceceno. Decine di uomini in divisa militare, kalashnikov tra le mani e caricatori appesi ai giubbetti antiproiettili controllano il territorio. La loro base è una villetta al lato della strada, che hanno fatto propria. Alcuni sono piuttosto giovani, altri sono veterani che hanno già combattuto nelle guerre in Cecenia nei decenni scorsi Ad accomunarli sono le lunghe barbe incolte, rasate soltanto all’altezza dei baffi. “Ahmad Sila Allahu Akbar” è il motto con cui si viene salutati. Spiegano che da oggi è possibile entrare nell’Azovstal, ma solo con loro e viaggiando sui loro mezzi militari. Invitano chi vuole proseguire a salire su una jeep crivellata dai proiettili. “Se ve lo diremo potrete proseguire”. Tutt’intorno si sente il rumore delle esplosioni provenienti dall’acciaieria. L’attesa dura ore. Poi, di colpo, sbuca dalla base un giovane uomo con la barba lunga e un copricapo islamico in testa: fa il segno di proseguire. 


Della parte orientale della città non resta più nulla. Le bombe non hanno risparmiato nessun palazzo, né le villette né i palazzoni in calcestruzzo in stile sovietico. Sono crollati o fortemente danneggiati, del tutto anneriti. Sulla strada si trovano carcasse di ogni tipo: di mezzi militari, di auto civili, di ristoranti demoliti, di parchi giochi distrutti. Soprattutto non si vede un’anima. Nessun passante, nessun civile. Si incontrano solo miliziani filorussi dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk che lungo la strada stazionano in check point tra le macerie sui quali spesso sventola l’immancabile bandiera russa. I veicoli militari ceceni passano senza essere controllati. Svoltando a destra si abbandona la strada asfaltata e si entra su un terreno fangoso, mentre i botti delle esplosioni si fanno sempre più forti. Le macchine inchiodano di colpo, i soldati ceceni ordinano di scendere e di camminare velocemente ai piedi di un palazzo distrutto, per ripararsi. Le mura sono completamente sfondate. Guardando in alto, all’altezza del primo piano si vedono due con le barbe lunghe e gli abiti militari. Sopra di loro sventola la bandiera cecena. Nel pian terreno del palazzo, visibile dall’esterno dato che le mura sono state sfondate, alcuni soldati sempre con le barbe lunghe hanno appoggiato a terra i kalashnikov e siedono intorno a un falò improvvisato. Tutt’intorno altri miliziani in divisa si muovono nel fango, camminando rapidamente e lungo le pareti per non essere esposti al fuoco. Uno di loro si avvicina e dice: “Qui siamo nell’Azovstal, qui ci siamo noi”. 


L’Azovstal è una vera e propria città nella città. Con un’area di 11 chilometri quadrati è composto da container, magazzini, cunicoli sotterranei, uffici, palazzoni, torri, ciminiere. È un luogo molto difficile da espugnare, non a caso scelto dalla resistenza ucraina come ultimo bastione. Qualche ora prima, però, sono riusciti a sfondare le linee nemiche e a prendere il controllo di una parte di esse, composta da scheletri di palazzoni distrutti che un tempo ospitavano l’amministrazione del complesso. La zona produttiva, ovvero l’acciaieria vera e propria, si trova qualche chilometro più avanti ed è ancora in mano ucraina. 

“Ahmad Sila” grida qualcuno nell’aria. “Allahu Akbar” rispondono i soldati barbuti in coro. Ad avere urlato per primo è un uomo vestito completamente di nero, se non per la mostrina verde raffigurante il volto di Kadyrov che porta sul braccio. Ha in testa un copricapo islamico e una lunga barba grigia. È il comandante Adam Sultanovic Delimhanov, deputato alla Duma e braccio destro di Kadyrov. È qua per dirigere le operazioni militari. Entrato nel palazzone tira fuori una mappa che appoggia su un tavolo improvvisato e spiega i movimenti dei suoi uomini all’interno dell’acciaieria. Racconta che il combattimento della notte scorsa è stato duro e che ha visto i ceceni scontrarsi direttamente con il reggimento Azov. “Nazisti – esclama – siamo venuti qua per eliminare il nazismo dall’Ucraina”. Racconta che gli ucraini sono a poche centinaia di metri ma che ormai sono completamente circondanti e che non hanno scampo. Lascia intendere che è solo questione di tempo, prima o poi cederanno perché sconfitti o perché stremati. A suo dire l’esercito di Kiev ha ancora a disposizione mille uomini operativi tra i quali ci sarebbero dei combattenti stranieri. Interrogato su chi siano, però, non si sbilancia. 

(ansa)
Salendo le scale del palazzone si incontrano altri uomini barbuti. Alcuni in piedi e ben armati, altri invece bivaccano a terra, con le armi e le cinture appoggiate a fianco. Tentano di riposare, mentre accanto a loro i cecchini presidiano le finestre. Dormire è però impossibile. Tutt’intorno non si sente altro che botti. Arrivati all’ultimo piano dell’edificio ci si affaccia sull’Azovstal nella sua completezza. Sulla destra la zona controllata dai ceceni, in cui la notte prima si è combattuto e in cui non resta in piedi nemmeno un palazzo. Tra le macerie camminano dei soldati portando rifornimenti ai combattenti: sacchi di cibo e bocce d’acqua. Volgendo lo sguardo a sinistra si vede il complesso industriale in cui ci sono gli ucraini. Le torri dell’acciaieria sono costantemente sotto il fuoco, in solo pochi minuti si vedono ripetutamente alzarsi polveroni di nube nera, segno dell’avvenuto bombardamento. Oltre ai botti si sentono i fischi dei missili e gli spari delle mitragliatrici, segno che i due eserciti si stanno scontrando uomo a uomo. Scendendo di nuovo si sale rapidamente in macchina e si riparte. Prima di andare, un miliziano spiega che nell’Azovstal i ceceni non sono soli ma che sono affiancati da russi e filorussi. Ma è evidente che sono loro ad avere un peso maggiore. Un missile cade a poche centinaia di metri di distanza con una forte esplosione, bisogna quindi andare. Partendo il saluto di chi rimane al fronte è sempre lo stesso: “Ahmad Sila Allahu Akbar”.

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