Prove tecniche di Armageddon: la Russia crea un “simulatore di esplosione nucleare”

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Prove tecniche di Armageddon. Tra le tante notizie inquietanti di questa stagione, una lo è particolarmente: un comunicato di poche righe diffuso dalla Tass che annuncia la creazione di un “simulatore di esplosione nucleare”. In pratica è un ordigno che riproduce gli effetti concreti di una bomba tattica: il fungo di fuoco che si alza nel cielo, il lampo di luce accecante, l’onda d’urto distruttiva per chilometri. Una copia di Hiroshima; identica nelle dimensioni, nel calore, nel vento. L’unica differenza è che non emette radiazioni, perché tutto è frutto di tritolo, liquidi infiammabili e sostanze chimiche.

L’aspetto più terribile è la finalità del simulacro, brevettato dagli scienziati dell’Accademia militare “Generale Khrulev”. Come ha scritto la Tass: “l’invenzione servirà a preparare le forze terrestri per operazioni nelle condizioni causate dallo scoppio di una testata nucleare tattica”. L’esercito russo quindi intende addestrare i suoi reparti a combattere sotto una pioggia di atomiche, abituandoli a misurarsi con la situazione reale provocata dell’arma più devastante: uno spettro che l’umanità aveva sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino, più di trent’anni fa.

Sul tema arriva oggi anche un’esclusiva del Financial Times: documenti top secret, ottenuti apparentemente dallo spionaggio occidentale, dimostrerebbero che Mosca sarebbe pronta a usare armi nucleari tattiche in caso di un’invasione da parte della Cina o di gravi sconfitte o minacce militari su altri fronti.

Il grande interrogativo

Non si tratta di un aspetto tecnico, di una delle tante manovre surreali introdotte nei wargame ma di un rilevante passo avanti nel superare ogni linea rossa e prendere in considerazione sul serio l’impiego dell’atomica. Dall’invasione dell’Ucraina il grande incubo collettivo è proprio la possibilità che Putin possa scagliare un ordigno tattico, concepito cioè con una potenza e una gittata limitata rispetto alle testate strategiche intercontinentali perché destinato a incidere sul campo di battaglia. Non bisogna dimenticare però che si tratta comunque di potenze superiori alle ogive lanciate su Hiroshima e Nagasaki.

L’interrogativo è diventato angosciante nelle fasi di crisi dell’armata russa, quando il nuovo Zar è apparso vacillare e il timore che ordinasse lo strike nucleare è stato più intenso. Il Cremlino lo ha sempre smentito, ma è stato spesso evocato da pezzi da Novanta della nomenklatura come l’ex presidente Medvedev.

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A rendere sempre meno ipotetico questo scenario da brivido non c’è solo il brevetto del “simulatore”. Un massiccio rapporto dell’Iiss – International Institute for Strategic Studies – passa in rassegna tutti gli sviluppi tecnici e dottrinari russi nel campo delle armi nucleari tattiche. Significativo è il committente dello studio: il Comando delle forze statunitensi in Europa, ossia chi dovrà affrontare la minaccia e decidere la reazione. E le conclusioni non sono per niente rassicuranti.

Il risveglio dello spettro

Dal crollo dell’Urss in poi, il Cremlino ha progressivamente rivalutato l’impiego di questi ordigni come mezzo per affermare il suo status di grande potenza. Una revisione cominciata nel 1999 all’indomani della guerra del Kosovo, che dimostrò la capacità della Nato di vincere un conflitto soltanto con l’aviazione e cambiare le mappe del Continente mentre la Russia di Eltsin stava precipitando in una crisi profonda. A fare da segretario alla prima riunione d’altissimo livello in cui si tornò a discutere della Bomba fu un giovane direttore dell’intelligence: Vladimir Putin, l’uomo che ha poi rivitalizzato l’arsenale più letale.

Da allora – recita il dossier dell’Iiss – “le testate tattiche hanno assunto un ruolo significato come deterrente per fermare conflitti non desiderati, per dare forma alla pianificazione delle iniziative belliche, per limitare l’escalation di uno scontro e assicurare che Mosca prevalga in ogni guerra”. Il vero problema è che oggi Putin riterrebbe che queste armi siano in grado di dargli “un vantaggio sui Paesi confinanti, sugli Stati Uniti e sui suoi alleati”.

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Si tratta di una questione chiave. L’equilibrio del terrore durante la Guerra Fredda si basava sulla certezza della distruzione reciproca: usare una sola bomba avrebbe innescato l’apocalisse, incenerendo le metropoli di entrambi i blocchi. Già negli anni Settanta la Nato aveva incrinato questa equazione, inserendo nei piani di difesa le ogive tattiche per contrastare l’avanzata delle divisioni corazzate sovietiche in Europa: riteneva che Mosca non avrebbe risposto colpendo gli States o le città. Il massimo pericolo ipotizzato dagli alti comandi era una sfida nucleare “confinata” sui campi di battaglia: cose che già all’epoca trasmettevano un senso di follia.

La convinzione del Cremlino

Adesso la situazione è forse peggiore. Perché i vertici russi “probabilmente danno scarsa considerazione all’arsenale di ordigni tattici americani come minaccia significativa”. In pratica, si sentono superiori in questo settore: “mentre mantengono la stessa dotazione degli Usa nelle bombe gettate da aerei, hanno però sviluppato una serie di opzioni a corto e medio raggio che gli danno la convinzione di un vantaggio nella gestione delle crisi, nell’escalation e nel potere imporre l’esito di un conflitto. Un vantaggio che compensa la scarsa fiducia nelle loro forze convenzionali”. Gli Stati Uniti dal 1992 hanno smantellato tutti i sistemi di questo tipo, conservando solo le B61 “a caduta libera” da agganciare sotto le ali dei propri caccia o delle squadriglie alleate: in Italia si trovano a Ghedi (Brescia) ed Aviano (Pordenone).

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Mosca invece ha prodotto diversi modelli di missili lanciati da semoventi terresti, navi e sottomarini con duemila ogive nucleari. La differenza non riguarda solo l’innovazione tecnologica, perché c’è un dato più importante: “La percezione di Mosca della mancanza di una credibile volontà occidentale di utilizzare l’atomica o di sostenere perdite enormi in un conflitto irrobustisce ulteriormente la dottrina e il pensiero aggressivi sull’uso di queste armi”.

Ecco la speculazione concettuale che può rendere reale l’incredibile. L’idea di buttare una o più atomiche, che spazzano via ogni cosa nel raggio di cinque-dieci chilometri, senza rischiare conseguenze. Così le testate tattiche smettono di essere un tabù e secondo lo studio “è altamente possibile che Putin le consideri come uno degli strumenti flessibili che può usare per raggiungere diversi obiettivi”.

Quali obiettivi? L’analisi dell’Iiss non li cala nel contesto della guerra ucraina. Alcuni però coincidono in maniera allarmante: “Imporre una decisione all’avversario. Controllare l’escalation di uno scontro bellico, impedendo che degeneri in un confronto diretto con l’Europa o gli Stati Uniti. Dissuadere potenze esterne dall’intervenire in un conflitto che la Russia ritenga fondamentale per i suoi interessi. Obbligare i nemici ad accettare la fine delle ostilità alle condizioni dettate”.

Il vantaggio autocratico

Di fatto, c’è già stata una mossa del genere. Davanti all’allargamento della Nato alla Finlandia, Mosca alla fine del 2022 ha annunciato il trasferimento ordigni simili tipo in Bielorussia “dimostrando che li vede come un mezzo utile per estendere il controllo sui Paesi vicini ed incrementare il potere di pressione sull’Alleanza atlantica”. Si tratta di missili con un raggio d’azione di 500 chilometri, sufficiente a piombare sulla Scandinavia: ogive tattiche con una proiezione quindi strategica.

Il rapporto è stato realizzato da William Alberque, l’ex direttore del centro Nato dedicato alle armi di distruzione di massa che da venticinque anni si occupa di questi temi. Con uno staff di ricercatori ha setacciato ogni elemento disponibile per comprendere cosa c’è nella testa di Putin e della sua cerchia ristretta: i vecchi manuali sovietici, il dibattito tra militari, i discorsi politici, le innovazioni tecniche. Un lavoro difficile, per il muro di segreto ricostruito dal 2014 e per l’esistenza di documenti ufficiali destinati totalmente o in parte a confondere i rivali, come il piano strategico del 2020 rivelato dal Cremlino che nega l’eventualità di un “primo colpo”.

Le conclusioni dell’Iiss non danno soluzioni immediate per smontare la presunzione nucleare russa. Neppure se il Pentagono dislocasse nel Vecchio Continente ordigni tattici con prestazioni migliori per compensare la superiorità dei mezzi di Mosca, ad esempio missili a corto o medio raggio. Pur preoccupato da una simile eventualità, “il Cremlino comunque ha fiducia nella capacità di prevedere e rispondere a uno scenario di rafforzamento in modo tempestivo a causa della trasparenza e della lentezza per una simile decisione al Congresso di Washington e nella Nato, così come nella potenziale opposizione dell’opinione pubblica europea a questo cambiamento”.

Il vantaggio dei regimi rispetto alle democrazie: decidere subito, senza fare i conti con leggi, procedure parlamentari e sostegni politici. Un potere assoluto, che impugna duemila testate tattiche.

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