Alexandra, figlia di Adriana Faranda: “Il dolore degli orfani del terrorismo non lo posso neanche immaginare”

Pubblicità
Pubblicità

Della madre ha lo sguardo. Due occhi neri neri che sembrano penetrare anche l’anima. Si chiama Alexandra Rosati in onore della rivoluzionaria marxista Aleksandra Michaijlovna Kollontaj, ha 53 anni, una figlia di 16 anni, Ottavia, e una cascata di capelli color della notte. È l’unica figlia dell’ex brigatista Adriana Faranda: la “postina” del rapimento di Aldo Moro e della strage di via Fani. Che alla fine dei 55 giorni si dissociò dai compagni perché non voleva che il segretario Dc venisse ucciso. Faranda è stata in carcere quindici anni. Il padre di Alexandra invece è Luigi Rosati, ex dirigente di Potere Operaio che di anni dietro le sbarre ne ha scontati due e mezzo. Da una vita vive a Parigi. Incontriamo Alexandra in un ristorante del centro di Roma: il sole è caldo e sembra estate, ma i marciapiedi sono ancora ricoperti di coriandoli. “Sono nata nel periodo di Carnevale – dice, guardando fuori dal locale – nonna organizzava sempre la mia festa di compleanno quando ero bambina. Pure in quell’occasione non potevo essere me stessa, costretta tutta l’infanzia a mascherarmi da qualcos’altro”. Silenzio. Risatina di circostanza. Disagio. Imbarazzo. Ordiniamo qualcosa da bere…

Adriana Faranda

Cosa ricorda della mattina del 16 marzo del 1978? Abitava anche lei alla Balduina, non lontano dalla strage. Furono giorni e giorni di posti di blocco, sirene spiegate, paura.

“Di quel giorno non ho memoria, ero piccola, avevo solo otto anni. Scuramente ero a scuola, dalle suore Immacolatine. Però ricordo benissimo quando un anno dopo, di notte, vennero a cercare mia madre… Dormivo nel lettone con nonna Rosa, la madre di mamma. Sono cresciuta con lei, perché mia madre prima di diventare una latitante era già stata in clandestinità per anni, sparita con tutti. E con mio padre si erano lasciati quando io a malapena cominciavo a parlare”.

immagine [id:422179838]Foto di Gerald Bruneau

Come fu quella notte?

“Terribile. Un vicino, il papà di alcune amichette del palazzo, per non fare prendere un colpo a nonna suonò per primo alla porta: ‘Rosa ci sono degli agenti che vogliono farti delle domande’. Ero terrorizzata. Ricordo ancora il freddo col pigiamino indosso, loro che entravano in ogni stanza, toccavano tutto. Aprivano gli armadi, i cassetti…”.

Quanti anni aveva?

“Nove”.

Alexandra da piccola con lo zio Fabio

Fino a quel momento, in casa, cosa le avevano detto su sua madre?

“Bugie. ‘Mamma e papà vivono a Milano perché lavorano lì’. Quando mamma era in clandestinità, ogni tanto arrivava un pacco: c’erano dei giocattoli. Il pacco, chiaramente, lo preparavano nonna e zio Fabio, il fratello piccolo di papà che mi ha fatto da padre. Un padre meraviglioso, tenero e giocherellone. È morto a 50 anni d’infarto, per me un dolore tremendo. Mi facevano anche scrivere delle letterine da spedire a un fantomatico indirizzo milanese. Ma un bambino si accorge se gli dici bugie, anche se le fai per non farlo soffrire”.

Aveva dei sospetti?

“Non potevo immaginare che mamma fosse una brigatista, neanche avrei capito a quell’età cosa volesse dire. Però avevo la stessa sensazione… Ha presente quando si scrive a Babbo Natale e uno da ragazzino pensa ‘Ma esisterà davvero?”.

Ai suoi amichetti cosa raccontava?

“Che mamma e papà lavoravano all’estero e viaggiavano tanto, per questo non li avevano mai visti. Poi quando lei è stata arrestata, e la verità a quel punto l’ho saputa anche io, c’era poco da inventare storie e far finta che fosse un’altra. Non posso dimenticare la faccia delle madri quando venivano a casa nostra a riprendersi i figli. Sul citofono c’era scritto grande e chiaro: Faranda”.

Ma togliere il nome, no?

“Come facevamo? Dovevamo cercare una vita normale. Le bollette, il postino…Bisognava andare avanti nonostante tutto. E se in parte quella specie di normalità l’ho respirata è grazie a nonna Rosa, tenera, generosa, accudente. E anche grazie a nonna Liliana, detta nonna Lilla, la madre di papà. Donna di temperamento, energica. Era quella che guidava la macchina, quella che ‘non c’è problema ci penso io’ e che a Natale portava i panettoni ai secondini. ‘Perché è meglio tenerseli buoni…’, diceva. Ma devo tanto oltre che a zio Fabio e a zia Paola, la sorella di papà, anche a zio Riccardo che viveva con noi nella casa alla Balduina e a zio Francesco, l’altro fratello di mamma, il più grande. E devo tanto anche a zia Anna, sua moglie, che a Pasqua, a Natale e d’estate, quando andavamo nella casa di famiglia al Circeo, mi facevano sentire felice. I miei cugini sono stati come fratelli. Perché loro non giudicavano. E da bambina il giudizio della gente era la cosa che mi faceva più paura”.

A scuola gli altri ragazzi le facevano pesare la situazione?

“Alle elementari fu difficilissimo. Le suore non riuscivano a creare alcun contatto, io percepivo la loro diffidenza. Ma non potevo capire… Una volta a ricreazione capitò che urtai per sbaglio un ragazzino. L’amico che era con lui, a voce alta nel corridoio, gli urlò ‘Aoh! Stai attento che quella è figlia di bombaroli!’. Io feci spallucce. Poi mi ammalai, una brutta bronco-polmonite. Fu un periodo bellissimo! Ricomparve papà, anche lui era passato alla clandestinità. Si sedeva sul letto, mi coccolava, mi raccontava le favole. Alle medie invece andò molto meglio”.

Esterno Notte, la serie tv di Marco Bellocchio premiata ai David di Donatello, racconta il rapimento di Aldo Moro attraverso il vissuto di tre persone: Eleonora Moro, la moglie del segretario Dc, Francesco Cossiga e sua madre, Adriana Faranda. E c’è anche lei, bambina. Con chi l’ha vista?

“Con mamma. Sedute una accanto all’altra sul divano. All’inizio ero in religioso silenzio, poi è stato un continuo montare di ‘Perché?’, ‘Ma davvero è successo questo?’. Era la mia occasione per capire di più”.

Sempre nella serie, lei – bimbetta – trova una pistola nel cassetto del comodino. Andò veramente così?

“Quell’episodio l’ho cancellato dalla mente. Però, vedendo la scena, ho chiesto a mamma se fosse accaduto davvero. ‘Sì’, mi ha detto senza esitazione. Ed è stato lì che ha deciso di lasciarmi per finire inghiottita nel buio della clandestinità. Aveva paura per me”.

Ad Adriana Faranda è piaciuto Esterno Notte?

“Più di quanto abbia voluto far vedere. Credo non si sia esposta troppo per non dare un dispiacere ad Agnese Moro, la figlia di Aldo, che adesso – dopo un lunghissimo percorso di giustizia riparativa intrapreso da mamma dal 2010 – è diventata la sua migliore amica. Agnese con Bellocchio è stata molto critica”.

Lei invece cosa ha provato?

“Gratitudine. Ho pensato ‘Ma allora qualcuno si interessa anche di me!’. Negli anni, ho intrapreso un percorso prendendo parte a tanti incontri di giustizia. Ho parlato con i figli di vittime del terrorismo a cui va tutto il mio rispetto: il loro dolore di orfani io non lo posso neanche immaginare, non è comparabile con la mia vita perché anche se in carcere, o assenti, io dei genitori li ho avuti, li avevo, ci potevo parlare o litigare. Ma anche io non ho avuto una vita semplice, anzi. A differenza di chi aveva perso, un padre, un figlio, un fratello per mano dei terroristi, io non esistevo… E per la mia storia familiare ho ricevuto tante porte in faccia, nella vita sociale e sul lavoro. Non sa quante volte ho fatto colloqui… Mi facevano i complimenti: ‘Le faremo sapere’, mi dicevano. Ma poi prendevano informazioni e non mi chiamavano più”.

Torniamo al giorno in cui sua madre venne arrestata.

“Beh, quello me lo ricordo, eccome! Lo scoprimmo dai telegiornali: a casa tutti cominciarono a piangere mentre io facevo “bidi bodi bu” sul letto. Saltavo di gioia, ero felicissima… Finalmente dopo tanti anni l’avrei rivista”.

Dopo quanto tempo vi siete incontrate?

“Non accadde subito. E quando accadde, c’era il vetro a dividerci: non potevo toccarla. Ricordo ancora il rumore delle chiavi che rimbombava quando aprirono tutte quelle porte. Ma ciò che mi perseguita da sempre è il rumore della serratura, in uscita… Io restavo fuori e lei dentro”.

È vero che per un periodo, nello stesso carcere, andava a trovare sia mamma che papà?

“Sì. Passavo dall’ala femminile a quella maschile di Rebibbia. Con la differenza che da mia madre, dove grazie a una psicologa ad un certo punto tolsero il vetro divisorio, venivo sempre accompagnata da una nonna, da uno zio. Da papà invece mi facevano entrare in parlatorio da sola. Non sapevo che dirgli… eravamo padre e figlia ma eravamo due estranei”.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *