Calissano, fondatore di Ebri: “Abbiamo un vaccino contro l’Alzheimer, ma ora servono soldi per testarlo sull’uomo”

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I topolini sono vivaci. Corrono ed esplorano le loro gabbiette anche se l’Alzheimer si è insinuato nel loro cervello. «Sogno il giorno in cui questo diventerà realtà anche per l’uomo», dice Pietro Calissano, neuroscienziato, per quarant’anni collaboratore di Rita Levi Montalcini e fondatore con lei di Ebri, lo European brain research institute, o Istituto europeo per la ricerca sul cervello.

I vetrini di laboratorio della scienziata, Nobel per la medicina nel 1986, scomparsa nel 2012 a 103 anni, sono ancora qui, nell’istituto fondato nel 2002 per dare un futuro alle sue ricerche. Le foto col suo enigmatico sorriso da Gioconda restano appese alle pareti. «I risultati ottenuti sull’Alzheimer l’avrebbero molto interessata. Il mio rammarico è non averle raccontato abbastanza dei nostri passi avanti, negli ultimi anni della sua vita» si cruccia Calissano.

I “passi avanti” sono un vaccino per l’Alzheimer che l’Ebri ha messo a punto sui topolini (viene iniettato in una vena della coda) e brevettato, ma che nessuna azienda ha ancora adottato per la sperimentazione sull’uomo. «La parola vaccino in realtà non è esatta», spiega Giusy Amadoro, che guida per l’Ebri questo filone di ricerca contro la demenza più diffusa nell’umanità, con 55 milioni di pazienti nel mondo.

«Il nostro è un anticorpo monoclonale realizzato in laboratorio, diretto contro un frammento di una delle proteine responsabili della morte dei neuroni, la tau. È somministrato quando la malattia è già presente, non per prevenirla. Non fa regredire i sintomi, ma ne blocca l’avanzare. Una linea di ricerca simile è portata avanti dal gruppo di Antonino Cattaneo della Normale di Pisa».

Giusy Amadoro e Pietro Calissano davanti al quadro con la stele di Rosetta a forma di cervello

Strade sperimentali simili sono percorse anche altrove nel mondo, con alterni risultati. Dopo vent’anni di studi, qui all’Ebri, gli scienziati hanno ora dimostrato che la terapia funziona. Almeno sui topi. E il ministero dell’Università e ricerca ha appena garantito a Ebri un milione di euro per arrivare almeno a fine anno.

Perché, professor Calissano, non portate avanti i test sugli uomini?

«Siamo un istituto di ricerca di base, e già fatichiamo a ottenere i fondi per andare avanti. Un conto è trovare 50-100mila euro per mettere a punto un vaccino che funzioni sui topi. Un conto sono i test sull’uomo, che richiedono 5-10 milioni. Lì deve intervenire un’azienda farmaceutica. Noi abbiamo ricevuto manifestazioni di interesse, ma mai offerte concrete».

Lei ha scritto con Nadia Canu e Sergio Nasi il libro “Cervello da Nobel” (Hoepli): una storia delle neuroscienze attraverso quaranta scienziati vincitori del premio. Chi troverà il vaccino per l’Alzheimer otterrà un altro Nobel?

«Può darsi, ma ci sono tanti rami di ricerca sul cervello che potrebbero meritare un Nobel. Uno dei temi più interessanti è la coscienza, che va di pari passo con quello dell’inconscio».

Ha a che fare con il quadro dietro di lei, la stele di Rosetta ritagliata nella sagoma di un cervello?

«Due delle tre lingue inscritte sulla stele di Rosetta erano note. Nel caso delle neuroscienze, i quaranta Nobel del passato hanno decifrato i primi due livelli del cervello: cosa sono i neuroni e come riescono a operare in rete. Ci resta da decifrare il terzo livello, il più difficile, come il testo in geroglifico della stele di Rosetta: la coscienza. Quali sono le basi neurologiche di quel che Freud aveva genialmente scoperto? Per ora brancoliamo nel buio, ma vedo all’orizzonte dei futuri Champollion».

Forse c’è un motivo se l’inconscio è inconscio. Svelarlo non sarebbe destabilizzante?

«Conoscere è sempre meglio che non conoscere. Sta a noi, come per la fisica dell’atomo, usare al meglio le scoperte».

Allora saluterebbe con favore anche il progetto di Elon Musk, che sperimenta elettrodi inseriti nel cervello collegati a un computer?

«Non so di preciso cosa stia facendo, ma le interfacce cervello-computer sono un filone di ricerca solido, avviato ben prima di Musk. Possono aiutare — ad esempio — chi è paralizzato a recuperare il movimento. Quando avremo svelato il codice di coscienza o intelligenza potremmo trovare dei modi di estenderle, collegandole a dispositivi esterni. Ci vorranno regole, ma non mancheranno le ricadute positive».

Un altro Nobel a chi lo darebbe?

«A chi definirà i reali limiti del nostro libero arbitrio. Più facciamo ricerca, più ci rendiamo conto di quanto sia ridotto e circoscritto. Una scoperta recente è che il cervello può inviare a un muscolo l’ordine di muoversi prima ancora che ce ne rendiamo conto. È come se il cervello decidesse cosa fare in anticipo rispetto alla nostra volontà. La domanda allora è: siamo davvero noi a stabilire coscientemente le nostre azioni?».

Il ricordo di Rita Levi Montalcini è molto vivo in questo laboratorio. Ci racconta come vi siete conosciuti?

«”Vengo a prenderla a mezzogiorno al suo albergo”, mi disse per telefono quando mi candidai a lavorare con lei. Era il 1965, io mi ero appena laureato, mentre lei era già una scienziata affermata. Quando la vidi trovai molto pertinente la descrizione fatta da Primo Levi: una fragile signora dal carattere di ferro e con il portamento di una principessa. Nel laboratorio del Cnr che aveva fondato due anni prima ci mettemmo a discutere seduti su due sgabelli da pari a pari. C’era una massima di Einstein alle sue spalle: “L’immaginazione è più importante della conoscenza”. Ancora oggi non finisco di riconoscere quanto sia vero. Ogni mattina, arrivati in laboratorio, mettevamo sul tavolo le nostre idee davanti a un caffè. Anche i più giovani parlavano senza inibizioni. L’ho sempre trovato un metodo molto rassicurante e incoraggiante, capace di tirare fuori il meglio da ognuno».

Montalcini e Calissano

Già si respirava sentore di Nobel?

«Io l’ho sentito fin dal primo istante, ma lei non era molto amata nell’ambiente italiano e si schermiva. Un giorno le proposi una scommessa: se vinci il Nobel, porti a Stoccolma me e la mia famiglia. Così fu. Ad assistere alla cerimonia c’erano anche i nostri due figli piccoli. Oggi sono entrambi laureati in Medicina».

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