Da Rizzo ad Avondet, quella strana armata dei rossobruni italiani stregati dallo zar

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A Ciro Cerullo street-qualcosa napoletano, noto con il nome d’arte di Jorit, estrazione movimentista, va riconosciuto il merito della mancanza di ipocrisia. A differenza di molti politici, giornalisti e opinionisti vari che in Ucraina riconoscono l’esistenza di un aggressore e di un aggredito, salvo rimuovere subito la premessa e aderire alle richieste dell’aggredito, Cerullo salta il passaggio formale e va al sodo: lui è da sempre, ben prima dello scatto a Sochi con il suo idolo Vladimir, un convinto e dichiarato sostenitore dell’invasione russa: «Non c’è nessuno da liberare – citiamo da un suo post dell’estate scorsa – la resistenza che avremmo dovuto appoggiare è quella del popolo del Donbass che lotta da otto anni per liberarsi da un regime, quello di Kiev, che di democratico ormai non aveva più niente». Aggiunge Cerullo: «Da quando inviare armi a un Paese pilotato dagli Usa in chiave antirussa che ha come eroe nazionale Stepan Bandera (nazista sterminatore di ebrei e russi) significa essere antifascista? Ma poi di quale sovranità violata stiamo parlando? Gli Usa controllano l’Ucraina come un pupazzo dal 2014». Quindi la conclusione: «Vogliamo la pace». Spianiamo l’Ucraina, suggerisce Cerullo, e chiamiamola “pace”.

Quando scrisse queste parole Cerullo era a Mariupol, dove gli occupanti russi gli hanno commissionato la realizzazione di un murale sulla fiancata di un palazzo distrutto dalle bombe di Putin. All’italiano amico di Mosca il compito di decorare l’edificio-lapide. Si è poi scoperto che il volto di bambina raffigurato sul palazzo, con le strisce rosse sul volto, la firma di tutte le opere di Cerullo, che sia la faccia di Ornella Muti o quella di Valerio Verbano, militante romano di Autonomia operaia ucciso dai fascisti, non era quello di una bambina indigena, come sostenuto dallo street-qualcosa, bensì un prestito – chiamiamolo così – dal lavoro di una fotografa australiana. Nella guerra c’è chi ruba le lavatrici dalle case degli invasi e chi pesca altrove.

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Cerullo sarebbe indifferentemente un perfetto candidato per la lista alle Europee di Michele Santoro, che fin dall’inizio chiama l’invasione russa “la guerra di Biden”, o in quella del generale Vannacci, se mai ne facesse una, che ha appena spiegato di apprezzare tanto Marco Rizzo, l’ex rifondarolo capo di un partitino fascio-comunista, il quale a sua volta su ogni piega di politica estera è in piena sintonia con il destrissimo Gianni Alemanno, fondatore di un altro piccolo contenitore a trazione antimperialista, a patto ovviamente che l’Impero sia quello americano. Tutti graditi ospiti potenziali di un podcast di Alessandro Di Battista, il transfuga M5S che ha fuso la posa (molto posa) guevariana con la geopolitica di Pino Rauti, o notiziabili per Giorgio Bianchi, il reporter “scomodo” che ha ottenuto di intervistare la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, e come Cerullo ha molto faticato a trattenere l’emozione. Da Fratelli d’Italia viene Amodeo Avondet, il giovane torinese sedicente giornalista che ha ricevuto per primo dai russi la notizia dell’uccisione in Spagna di un ufficiale scappato dalla guerra. Cerullo bazzica i centri sociali, invece. La politica non divida ciò che Putin unisce. Naturalmente ciascuno di costoro, se chiamato a definire l’informazione dei Paesi occidentali, userebbe l’espressione “serva”. Tra i grillini militava anche il più russo di tutti, dopo Cerullo, l’ex presidente della Commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli, uno che verga Z sul web appena può e che, prima di essere eletto nella riffa delle parlamentarie grilline, militava nei Carc, che sta Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo. Finito il comunismo, Petrocelli si limita ad appoggiare Mosca, come i fascisti.

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Di questo calderone rossobruno, testato in pandemia e messo in pista con la guerra, Cerullo è perfetta incarnazione: campione di antagonismo a casa sua, nell’odiato Occidente che tanto nuoce con la propaganda all’immagine del caro Valdimir, e barboncino da esibizione in casa del dittatore, dove si sistema il ciuffo prima di farsi fantozzianamente fotografare con lui: “Com’è umano lei!”. Singolare destino di questi nemici del “pensiero unico”, che si ammantano dell’aura di pensatori coraggiosi mentre svolgono il ruolo che fu di Robert Brasillach, il giornalista antisemita che appoggiava i nazisti occupanti della Francia, ovvero di aspiranti Leni Riefenstahl di Putin, la documentarista del Terzo Reich, con la differenza che Riefenstahl era una sopraffina regista, e qui di arte se ne vede pochina, da Cerullo in giù.

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Ci vuole fegato a dipingere bambini sui palazzi sventrati dall’artiglieria di Mosca, come ce ne sarebbe voluta a decorare lo stadio dove Pinochet rinchiuse i cileni dopo il golpe. Ma quello di Pinochet era un colpo di Stato “americano” e, in quei casi, ai rossobruni torna magicamente la vista sui dittatori.

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