Dal paleolitico a Kim Kardashian, la storia delle donne in 100 oggetti

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“Le pentole sono il contrario dei monumenti”. Una frase che suona alquanto bizzarra, ma non dopo essere entrati nell’universo tratteggiato da Annabelle Hirsch in Una storia delle donne in 100 oggetti, edizioni Corbaccio. Il primo libro della giornalista indipendente e poliglotta, 37 anni, arriva in Italia dopo aver fatto il giro d’Europa, pubblicato dapprima in Germania e poi in Francia. Un percorso che ricorda da vicino quello personale della scrittrice tedesca, che ha vissuto tra Monaco di Baviera, dove ha studiato arte, e Berlino, dove ha iniziato a lavorare. Hirsch si è poi trasferita a Parigi, città natale di sua madre. Oltralpe, è rimasta per sei anni, trascorrendo dei periodi nella sua amata Roma. 

Annabelle ha scelto di raccontare la storia delle donne attraverso oggetti quotidiani, dettagli, aneddoti che conducano una narrazione diversa. Tra i cento, non ci sono (solo) le scoperte più innovative ma soprattutto l’intenzione di scoprire strumenti, abiti, opere d’arte e letteratura. Oggetti che rappresentino momenti non eclatanti ma intimi, una raccolta di curiosità che tocchi le sfere della sessualità, del genere e del corpo, dell’amore, della politica, del lavoro e, naturalmente, della moda e della bellezza. Un viaggio in ordine cronologico lungo i millenni, attraverso l’Occidente.

La copertina di "Una storia delle donne in 100 oggetti", Annabelle Hirsch, 415 pagine Photo Courtesy: Corbaccio

Punto di inizio di Una storia delle donne in 100 oggetti  è la preistoria, con un osso femorale umano guarito da un incidente. Un fatto in antichità inimmaginabile se non grazie all’aiuto di un altro essere umano. Un espediente per introdurre “la teoria della nonna”, secondo cui una donna adulta, non più in età fertile, nell’evoluzione della specie aveva il compito di assicurare la procreazione assistendo le figlie o le donne più giovani. Fin dalle prime pagine, con un episodio al femminile, Hirsch offre così un esempio di rilettura di una certa, cospicua storia maschilista, che in questo caso voleva che gli uomini delle caverne andassero a caccia, badando alla sopravvivenza collettiva, mentre le donne si occupassero “solo” dei bambini.
Come fa con l’osso preistorico, Annabelle Hirsch capovolge capitolo per capitolo prospettive maschili, instillando il dubbio che persino le più accreditate teorie non siano inconfutabili. Il viaggio nel tempo finisce nel 2017, con le proteste seguite all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Le manifestanti sfilarono con il pussy hat, il berretto rosa con orecchie da gatto che rispondeva provocatoriamente alle frasi sessiste pronunciate dal tycoon.

Alcuni oggetti: la moda 

A spasso per la prima fatica letteraria di Annabelle Hirsch, capita di fare scoperte insolite e divertenti. Abiti, borse, scarpe e cappelli distintivi di alcuni periodi storici fanno capolino assieme ad usi e costumi dell’epoca. Pensiamo alle chopines veneziane, che in versione moderna (e più bassa) sarebbero le iperboliche Armadillo shoes di Alexander McQueen, con tacco finissimo e maxi plateau. Nel XVIesimo secolo, sono state tanto “l’accessorio delle donne nobili” che delle cortigiane.

Guanti profumati, una moda lanciata da Caterina De' Medici nel XVIesimo secolo Photo Courtesy: Corbaccio

Senza i guanti profumati di Caterina De’ Medici, “la cittadina provenzale di Grasse rinomata dal XVI secolo in poi per le sue raffinatissime essenze, non sarebbe forse mai nemmeno esistita”, nota Hirsch. Infilare uno dopo l’altro i cosiddetti “frangipane”, intrisi di essenze del monastero fiorentino di Santa Maria Novella, equivaleva a cambiare profumo. Divenuta regina consorte con il matrimonio con Enrico II nel 1533, l’italiana aveva lanciato una moda in Francia non solo sofisticata ma anche utile. A Grasse, infatti, si lavorava pelle e le fragranze avrebbero camuffato l’odore acre del cuoio. Il territorio, tra l’altro, era proficuo, in quanto ricco di lavanda ed altre odorosissime erbe e piante.

Chanel N°5, 1921 Photo Courtesy: Corbaccio

Con i suoi guanti profumati, Caterina De’ Medici inaugurò a Grasse una produzione che rimane inalterata tutt’oggi e che circa un secolo fa diede nascita all’iconico Chanel N°5. “Ha cambiato le abitudini olfattive dei francesi e poi del mondo intero”, scrive Annabelle Hirsch. Fino a quel momento infatti i profumi venivano dall’estratto di un solo fiore, non di una miscela di essenze. La fresca fragranza di Coco invece esprimeva la complessità della donna moderna. Il flacone n°5, realizzato e proposto a Grasse da Ernest Beaux a Gabrielle Chanel, era assolutamente parfait. 

Il corsetto di metallo, “capo d’abbigliamento determinante della silhouette femminile” per cinque secoli, ha indotto a riflettere anche i grandi pensatori. Jean-Jacques Rousseau si chiedeva ad esempio se non fosse usato dalle donne per allontanarsi dal ruolo “naturale” di madri dolci e amorevoli e diventare oggetti sessuali e fieri. Gli amanti vi scrivevano spesso delle frasi proibite all’interno.

Corsetto di metallo, XVIIesimo secolo Photo Courtesy: Corbaccio

Il corsetto è stato insomma un oggetto controverso, “più complesso di quanto si possa immaginare”: esaltava il corpo femminile e al tempo lo stesso lo condannava, spiega Hirsch. Eppure, in tessuto, non smette di essere portato tutt’oggi.
Proprio l’attualità di indumenti e dettagli presenti già secoli fa nel guardaroba delle donne desta stupore, soprattutto quando se ne riscoprono gli antichi significati sociali. È il caso delle tasche, che nei look contemporanei affollano i vestiti mentre alla loro comparsa erano prerogativa dei pantaloni maschili. Anche stavolta c’era voluta Coco Chanel per fare la rivoluzione e disegnare camicie e giacche con taschini. Prima di allora, le donne portavano delle reticule, tasche da legare sopra o sotto i vestiti, antesignane delle borse. Le suffraggette rivendicavano non a caso le tasche segrete delle donne come un segno di emancipazione, un diritto: le loro uniformi ne contavano da sei a otto.

Tendiamo a dimenticare che avere delle tasche sulla gonna, sul vestito, sul pantalone o sulla giacca significhi una certa libertà

Ciascun oggetto, visto dalla lente di Annabelle Hirsch, è uno scrigno da dischiudere in chiave femminile. La macchina da scrivere, quando è comparsa a fine Ottocento, è stata rifiutata dagli uomini e promossa come nuovo strumento di lavoro per le donne. Oltre ad una nuova tecnica, introduceva nuove professioni, consentendo alle donne di entrare per la prima volta negli uffici, ad esempio come segretarie. Grazie ad un salario fisso, godevano finalmente di un potere d’acquisto, proprio negli anni in cui vedevano la luce i primi grandi magazzini europei. Lo shopping come lo intendiamo oggi affonda infatti le radici alla fine del XIXesimo secolo, in gallerie “musei” come Le Bon Marché di Parigi. Gli psichiatri dell’epoca testimoniavano il frequente fenomeno della cleptomania tra le donne, stuzzicate dall’invitante offerta di prodotti.

Cappotto "a cento all'ora", 1923Photo Courtesy: Corbaccio

Un secolo fa, le donne cominciavano anche a guidare. Della loro emblematica divisa, faceva parte il cappotto a cento all’ora, nato nella maison de couture francese Dornac. Le garçonnes portavano il soprabito ispirato alla velocità in automobile, a collo alto e maniche larghe, con taglio androgino.

L’intimità delle donne

Tra i 100 cimeli selezionati da Annabelle Hirsch, ricorrono discorsi spesso insospettabili sull‘intimità femminile. L’autrice ci ricorda che se il piacere delle donne può costituire ancora un tabù, Saffo combatteva il pudore, in poesia, già nel VII secolo a.C. Saltiamo a circa mille anni dopo con il dildo di vetro, che non poteva non essere lavorato a Murano, a due passi da quella Venezia “capitale della sessualità raffinata”. Il mercato dei sex toy ha avuto un momento up ancora nel XVIIesimo secolo.

Dildo di vetro, XVIesimo secolo Photo Courtesy: Corbaccio

Il bidet era appannaggio delle donne, o meglio “confidente delle donne”, almeno dalla fine del 1700. Più che come un sanitario, era visto come un oggetto sessuale, in quanto connesso ai rapporti: la “toilette intima”, si credeva, evitava la diffusione delle malattie veneree e forse addirittura la gravidanza. Curioso, ma storicamente il bidet è arrivato a rappresentare un “contraccettivo” se non un “simbolo di depravazione”.

Amo camminare intellettualmente nel passato

Nel XXesimo secolo, tra i motivi di imbarazzo per le donne nasce poi quello dei peli: gli abiti lasciavano nude parti del corpo fino ad allora nascoste, creando il problema e la necessità sociale della depilazione, a partire da sotto le braccia. Si forgiava così anche un nuovo standard di bellezza, che evocava la pelle di un bambino; veniva introdotto sul mercato il primo rasoio Gillette pensato per le donne.

L’intervista

Scrittrice e giornalista per la stampa tedesca e internazionale, Annabelle Hirsch ha risposto alle nostre domande sulla genesi di Una storia delle donne in 100 oggetti.

Annabelle, lei ha vissuto in Germania, in Francia, quando possibile anche in Italia. C’è un posto che, più degli altri, la faccia sentire veramente a casa?

“È una domanda un po’ difficile per me perché non mi sento a casa mai, non so perché. Mi sento molto al mio posto in Italia, anche se per una questione di origini dovrei esserlo di più in Francia o in Germania, ma in questi Paesi sono sempre la francese in Germania e la tedesca in Francia. A Roma, più che a Parigi, sono solo una straniera e questa sensazione mi piace molto”.

Nel corso delle sue esperienze, è riuscita farsi un’idea sul ruolo delle donne nella società italiana, a confronto con realtà internazionali più libere e emancipate, a lei più vicine?  

“Non conosco abbastanza bene la realtà italiana per poterne parlare a fondo. Posso dire che ho notato un alto numero di femminicidi: ogni giorno le cronache riportano la morte o il maltrattamento di una donna, mi ha impressionato. Posso parlare meglio di altre società: di come, ad esempio, fosse percepita mia mamma, che mi ha cresciuto separata da mio papà a Monaco di Baviera. Non parliamo affatto degli anni Cinquanta, eppure era visto quasi con diffidenza che una donna, sola, potesse occuparsi di me e nel frattampo lavorare. A volte gli stereotipi sono più forti della realtà: si pensa che le donne francesi siano l’emblema della libertà, della sensualità o dell’emancipazione. Ad esempio, a loro è concesso rientrare a lavorare già a tre mesi dalla maternità. Ma siamo sicuri che ne siano contente o che sia davvero un privilegio?”

Si definisce una femminista?

“Sì, ma dipende cosa intendiamo per femminismo, ne esistono tanti che a volte si fanno persino guerra tra di loro. Il mio femminismo è da un certo punto di vista molto basic, penso che le donne debbano avere gli stessi diritti degli uomini e che dobbiamo fare molta attenzione a traguardi che sembrano acquisiti, ma si possono perdere velocemente. Il mio è un femminismo quasi più psicologico, che metta meno in dubbio la società e più dei concetti, immagini vecchie insite in noi, di cui non riusciamo a sbarazzarci, senza nemmeno che sia più la società ad inculcarli”.

"We Should All Be Feminists"- la maglietta di Dior, 2016 Photo Courtesy: Corbaccio

“Ho voluto scrivere questo libro proprio per offrire una lettura della storia delle donne da angolazioni diverse. Il passato, nelle sue interpretazioni, non è ineluttabile. Prendiamo il matrimonio, quando mi sono sposata mi sono dovuta battere con una serie di immagini nefaste collegate a questa istituzione che non hanno davvero nulla a che vedere con la mia vita di oggi. Sarebbe bello se le donne, in primis tra di loro, fossero più indulgenti e si lasciassero fare quello che più desiderano, scegliendo di essere chi preferiscono senza che nessuno le giudichi e con il diritto di cambiare più volte nella vita, di essere libere. La libertà è fondamentale per tutti, a prescindere dall’essere donna e trovo che spesso ci manchi”

Quali reputa i diritti importanti che le donne devono ancora ottenere e quali le disparità più ingiuste? 

“Le disparità sono sicuramente nel lavoro, a livello di gender gap retributivi. Nel mio piccolo, l’aspetto che mi interessa di più e che credo tocchi davvero tutte è il ruolo delle donne nell’intimità della famiglia, dove a volte subiamo delle micro-violenze senza nemmeno riconoscerle. Succede anche alle donne più forti e sicure di sé. Tra le ingiustizie “sociali” annovererei anche le continue domande che riceviamo sull’avere figli”. 

Penna a sfera di Greta Garbo, 1927. L'attrice fu tra le prima a pretendere di essere pagata al pari dei colleghi maschi. Photo Courtesy: Corbaccio

Veniamo al libro: non trattandosi di un manuale storico, come ha scelto i 100 oggetti protagonisti? Come è nata l’ispirazione? 

“Sono partita da quelli che volevo assolutamente fossero nel libro, ad esempio un oggetto che mi portasse a parlare di Colette, che è stata una figura cardine non solo per le donne francesi. Volevo la figurina di Baubò (legata al mito del ratto di Persefone, ndr) che ha risolto una situazione con una risata invece che con i muscoli. Da un lato, l’antologia traccia l’evoluzione effettiva della storia, vedi gli oggetti legati alla Rivoluzione o alle guerre, perché non volevo che la storia delle donne rimanesse sconnessa da quella reale, scevra dagli eventi. Da un altro, avevo voglia di raccontare una storia particolare, parallela a quella al maschile, e avevo dei temi che mi stavano a cuore, come la sessualità che ha un posto importante nel libro, ma anche lo spazio pubblico, il movimento, il rapporto con la scrittura, il potere e la politica. Anche alcune figure femminili erano per me immancabili, ho cercato di far incontrare questi parametri e spesso l’oggetto nasce da questo incontro di intenti. Ho cercato l’equilibrio tra la sfera intima e il racconto di un’epoca. In Germania mi hanno sollevato qualche critica per aver inserito nel libro Kim Kardashian (e il prezioso anello rubatole a Parigi nel 2016, ndr). Non la amo affatto, ma come ignorarla? C’è un numero incalcolabile di donne che si è addirittura sottoposta ad operazioni chirurgiche per somigliarle. Ai nostri giorni, ha creato un prima e un dopo e lasciarla fuori per una sorta di snobismo non mi sembra sensato. Ho chiamato a raccolta figure significative, senza che fosse una storia né di vittime né di eroine: a volte si può essere entrambe”.

C’è un oggetto che, in corso di scrittura, l’ha sorpresa, appassionandola più del previsto? 

“Tutti! È un libro che ho scritto durante il lockdown, mi sono potuta dedicare quasi in maniera ossessiva. Ho avuto l’occasione di viaggiare nel tempo e per ogni periodo è stata una scoperta. Mi è piaciuto rendermi conto che tante delle cose che abbiamo imparato sulla preistoria sono forgiate dalla lettura che se ne era data nel XIXesimo secolo, quindi improntata a una visione arcaica uomo donna. Oggi sappiamo che molte informazioni sono false, ad esempio che molti personaggi che abbiamo creduto uomini fossero delle donne. È stato interessante scoprire che il Medioevo, contrariamente a quanto si pensi, non è stato il periodo più terribile per i diritti femminili. Se c’è un oggetto che trovo molto ironico è la spilla da cappello con cui le donne aggredivano i molestatori per le strade. Non lo cercavo, mi è capitato. Ci racconta che già ad inizio Novecento quello che oggi chiamiamo cat calling costituiva un oggetto di dibattito pubblico. Delle ammende erano previste già allora eppure ancora oggi non si può dire di aver trovato soluzione definitiva al problema. Infilzando i molestatori con la spilla le donne si facevano giustizia da sole”.

E se dovesse eleggere uno o pochissimi oggetti preferiti, tra i 100?

“Dipende dai punti di vista. Amo molto la machine di Madame du Coudray, che nel XVIIIesimo secolo aiutava le donne a partorire in tutta la Francia portando con sé un pupazzo, una bambola che serviva a spiegare alle donne come fosse fatto il loro corpo. All’epoca si moriva per dare la vita e questa donna ha contribuito alla professionalizzazione dell’ostreticia. Un oggetto che trovo molto raro e forse il più toccante è la sacca in cotone di Ashley, che racconta una storia intima di separazione di madri e figli nella tratta di schiavi negli Stati Uniti. Rappresenta tutta la forza degli oggetti. Amo poi quelli di cui non parla nessuno, come le planchettes, piccole tavole a forma di cuore con cui, a metà Ottocento, si credeva di entrare in contatto con i defunti”.

Nel capitolo sulla macchina da cucire, scrive: “Se questo libro fosse stato una storia delle donne non in cento ma in due oggetti, quelli sarebbero stati ago e filo”.

“Per un lungo periodo la vita delle donne era davvero incentrata attorno a questo, direi dall’antichità. Ago e filo sono oggetti che hanno simboleggiato il posto delle donne nella società. A partire dal XIXesimo secolo questo rapporto è cambiato con l’introduzione della macchina da cucito, che ha lasciato più tempo alle donne regalandogli libertà. Dava loro l’impressione di avere una relazione privilegiata con la modernità e il progresso”.

Bikini, 1947 Photo Courtesy: Corbaccio

Che ruolo attribuisce alla moda nella storia delle donne?

“Non ho voluto che la moda fosse protagonista nel mio libro per evitare associazioni facilistich, ma è stato praticamente impossibile tenerla fuori. Credo che la moda abbia spesso accompagnato i cambiamenti: grazie alla sua capacità di trasformazione, ha dato alle donne uno strumento per sentirsi più forti. Ha costituito un mezzo di liberazione ma talvolta anche di sottomissione. Trovo che nella moda sia presente questa ambiguità: un capo che in un periodo è stato liberatorio può diventare strumento di “oggettificazione”. È il caso del bikini, della mini gonna, del corsetto (da costrizione a simbolo di empowering), lo stesso smoking di Yves Saint Laurent, così acclamato in un certo momento e più in là visto quasi come una privazione di femminilità ed un’incitazione ad essere il più possibile maschile per fare carriera. Ciò che amo nella moda è che è fatta di cicli di invenzioni e re-invenzioni, i significati non sono mai fissi ma si accordano alle epoche”.

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