Delocalizzazioni, la svolta elettorale di Giorgetti

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Le campagne elettorali a volte fanno miracoli. “La modifica è un passo importante. Abbiamo rafforzato le norme sulle delocalizzazioni selvagge, con sanzioni più severe per chi non rispetta le procedure”: sono le parole con cui il ministro dello Sviluppo Economico, il leghista Giancarlo Giorgetti, ha commentato, anzi ha festeggiato l’articolo introdotto dal governo Draghi nel Decreto aiuti ter sull’onda della solita, ipocrita indignazione per l’ennesima notizia di una multinazionale, in questo caso la finlandese Wartsila, che da un giorno all’altro chiude una fabbrica in Italia e trasferisce, in altri Paesi dove i costi di produzione sono più bassi, le proprie attività lasciando senza lavoro centinaia di lavoratori. Il tutto, nonostante i contributi pubblici ricevuti dallo Stato.

Una folgorazione sulla via di Damasco, quella di Giorgetti, da fare invidia a San Paolo. Lui, infatti, è lo stesso ministro che non più di un anno fa aveva combattuto, vincendola al fianco della Confindustria, la battaglia contro il provvedimento anti-delocalizzazioni che oggi viene rafforzato. Erano i giorni del licenziamento via sms dei 422 operai della Gkn di Campo Bisenzio, Firenze, ultimo anello della catena di chiusure iniziata anni fa con l’Alcoa in Sardegna (la “madre di tutte le delocalizzazioni”) e proseguita poi nel tempo, solo per citare i casi più eclatanti, con la Whirlpool di Napoli, la Embraco a Torino, la Wanbao nel Bellunese, la Jabil a Caserta…

Il ministro del Lavoro, il dem Andrea Orlando, e la vice di Giorgetti al Mise, la grillina Alessandra Todde, allora misero nero su bianco un provvedimento che puntava a frenare le delocalizzazioni prevedendo, tra l’altro, una black list delle multinazionali che avevano abbandonato inopinatamente l’Italia – alle quali veniva negato per tre anni l’accesso a incentivi e finanziamenti pubblici e agli ammortizzatori sociali – oltre a sanzioni parametrate sui contributi previsti dalla legge a carico delle aziende in caso di licenziamenti non concordati.

Nella prima versione, la sanzione era pari a dieci volte il contributo, ma poi il mantra “non penalizziamo le imprese, non allontaniamo gli investimenti, rispettiamo la libertà di mercato” sbandierato da Giorgetti (Confindustria pressante e Draghi silente) aveva prevalso e dopo molti mesi di tira e molla la montagna aveva partorito il topolino: niente black list e sanzione pari a solo il doppio.

Per intenderci, multe di circa 3,4 milioni di euro nella peggiore delle ipotesi e intorno a 2,6 milioni nei casi meno scabrosi, a fronte di fatturati globali, quelli di una multinazionale, da decine di miliardi di euro. Rimanendo a metafore zoologiche, “il ruggito del coniglio” della politica italiana, sinistra compresa visto che lo stesso Orlando alla fine si accontentò del bicchiere mezzo pieno (“comunque un provvedimento si è fatto”).

Come prevedibile le delocalizzazioni sono andate avanti imperterrite e, a parte i lavoratori coinvolti e i sindacati, praticamente nessuno ne ha più parlato. Almeno fino al caso Wartsila, scoppiato nel nordest del Paese in piena campagna elettorale, e che appunto ha folgorato Giorgetti sulla via di Damasco tanto che oggi lui si felicita, intestandosela pro quota, per la nuova misura che ha alzato a cinque volte il moltiplicatore delle sanzioni. Più o meno quella che aveva affossato un anno fa. Miracoli delle elezioni. Ma, per dire, le operaie e gli operai della Whirlpool di Napoli si sono ormai rassegnati a credere soltanto a quello, limitrofo, di San Gennaro. E con loro le migliaia di lavoratori che attendono da anni la soluzione di crisi industriali che impoveriscono interi territori del Paese.

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