Elena Cecchettin: “Non ricordate Giulia solo come la vittima del suo assassino”

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Questa intervista è tratta dallo speciale L’Anno che verrà 2024, l’imperdibile album di Repubblica, 24 pagine, in edicola il 31 dicembre, in cui le nostre migliori firme raccontano scenari, rischi e potenzialità dei mesi che ci aspettano. Dalle grandi elezioni nel mondo alle riforme del Paese, dalla sfida climatica all’emergenza femminicidi.

A volte si increspa e si arrochisce, la voce di Elena Cecchettin, ma non si rompe mai. Nemmeno quando ricorda quella sera e quella notte minuto per minuto, nemmeno quando parla della malattia e della morte di sua madre né quando dice «Avrei voluto sopportare dieci volte il dolore che deve aver sofferto Giulia. Sarei morta al suo posto, sarei morta per difenderla». In una conversazione di quasi un’ora e mezza non c’è mai un momento di rabbia: solo parole appropriate, esatte.

C’è il silenzio che serve per pensare, talvolta, e qualche non so, e qualche preferirei non dirlo. Ci sono un controllo, insomma, e una forza in questa giovane donna, 24 anni, che sono l’eco che resta di lei dopo tanto parlare: la fermezza pur nella fragilità scandita («Soffro molto di ansia, mi è capitato di avere attacchi di panico»). C’è persino spazio per il sorriso perché proprio mezz’ora fa ha sostenuto il suo ultimo esame – due in questa settimana – sono andati benissimo «E non avrei detto che fosse possibile ma invece, ecco. Invece sì, un piccolo sollievo: c’è tanto da fare e non mi voglio fermare».

Tema di questa conversazione è appunto il futuro, l’anno che verrà. Come evitare che si spenga la fiamma di consapevolezza e di battaglia che la morte di Giulia, sua sorella minore, ha acceso nel Paese. Un compito di tutti, uomini e donne, governo e opposizioni: LA COSA, maiuscolo, da cui ogni altra discende.

Elena, molte donne hanno detto e pensato «potrebbe essere successo a me». Lei crede che questo coinvolgimento di moltitudini dipenda dalla – chiamiamola – “normalità”? Due coetanei, studenti universitari, cresciuti in una cittadina del Veneto, in famiglie relativamente benestanti.

«Il modello condiviso e interiorizzato dalla maggioranza è un grande tema, perché ci porta a riflettere proprio su quello che consideriamo “normale”. Chi uccide è sempre la punta dell’iceberg. Ma misoginia e sessismo sono autorizzati dalla società, profondamente patriarcale. Si possono fare centinaia di esempi. Se una ragazza ha avuto molti partner non è considerata allo stesso modo di un ragazzo. Come ti vesti, come ti comporti. Non è uguale il giudizio. Sono pensieri radicati eppure sminuiti, banalizzati perché appaiono, appunto, normali. Il controllo comincia sempre dietro la maschera dell’aiuto, della cura. Si normalizzano da principio atteggiamenti che sembrano lievi, poi via via peggiori. Bisogna iniziare a puntare il dito sulle cose piccole. Lo svalutare le donne, per esempio. L’educazione è fondamentale, a partire dalla primissima infanzia: se lo Stato non investe in questo ha fallito il suo compito ed è complice, sì. Complice del sessismo e della misoginia diffuse che possono sfociare in violenza estrema».

La scuola, certamente. Ma anche gli adulti concorrono a formare nei bambini una certa idea di mondo. Non è raro che i genitori siano avversari, diciamo così, degli insegnanti.

«Difatti la scuola ha anche il compito di contrastare il modello familiare perché è vero: talvolta quello che succede dentro casa, il modo in cui gli adulti si comportano tra loro e con i figli, è un pessimo esempio. Bisogna pensare anche all’educazione degli adulti. Servono campagne di sensibilizzazione, spot in tv che parlino ai più anziani. La violenza di genere deve diventare un tabù, socialmente inammissibile. La prevenzione deve diventare un dovere individuale. Come per la lotta ai tumori. Mia nonna ha 75 anni e grazie alle campagne degli ultimi anni sa che deve farsi regolarmente mammografie. Quando aveva vent’anni come ne ho io adesso questo non succedeva».

Crede che l’assassinio di Giulia possa aver innescato un cambio di passo?

«Sono ovattata da un dolore immane, mi è difficile capire. A volte ho paura che sia una fiamma che si spegne ma non voglio neppure dirlo, voglio credere che non sarà così. Io sono fiera di chi sono, delle mie origini, del mio Paese. Ho sempre fatto battaglia politica, mi reputo transfemminista. Il reddito basso, per fare un esempio: le donne sono succubi se non hanno indipendenza economica. Valgono meno se vengono pagate di meno. Le donne straniere, le persone immigrate sono doppiamente fragili. È storto il sistema. È il patriarcato, il problema».

Per aver usato questo termine è stata attaccata frontalmente. Persino sulla sua felpa hanno avuto da ridire. Satanista.

«Le felpe sono cazzate. Non mi spaventano gli odiatori. Si muovono per screditare diffondendo menzogne, contano sull’ignoranza diffusa e ad arte coltivata. Non vale la pena rispondere, sarebbe dar loro credito. Sono stata bullizzata a scuola da piccola, ho imparato presto come si comportano in gruppo e so difendermi. Non ho intenzione di lasciare le mie battaglie. Non è per Giulia: non mi sottraggo al compito che oggi mi tocca ma non voglio nemmeno che la mia vita diventi una funzione di quel che è successo a mia sorella. E neppure vorrei che mia sorella fosse ricordata solo in relazione al suo assassino: è morta perché voleva essere indipendente, per la sua libertà. È un paradosso che il suo nome resti legato a quello di chi l’ha uccisa. Giulia è anche un simbolo della battaglia contro il femminicidio. Anche, non solo. Giulia è una donna luminosa, generosa, intelligente, buona, indipendente e fiera della sua autonomia. Un’ingegnere, un’artista. La mia migliore amica, pur nella diversità di caratteri. Abbiamo vissuto nella stessa stanza per tutta la vita, fino ad agosto. Era la prima persona con cui parlare di ogni cosa. Ancora adesso, ogni momento, penso: devo dirlo a Giulia».

Lei dov’era quella sera?

«A casa a Vienna. Studio microbiologia qui, all’Università».

Vi siete sentite?

«Sì. Ci siamo scritte fino alle dieci e mezza di sera. Parlavamo di vestiti, Giulia stava scegliendo quello per la laurea. Sapevo che era con lui, ci siamo scambiate messaggi mentre erano insieme. Fino alle 22.30, appunto. Poi le ho scritto e lei non ha visualizzato. Non mi sono preoccupata, era sabato sera, erano fuori. Ho pensato magari le si è scaricato il telefono. All’una e mezza mio padre ha scritto nella chat di famiglia: Giulia, dove sei? Sono andata a letto e non riuscivo a dormire, sono molto ansiosa, quella notte avevo un’oppressione tremenda. Alle otto di mattina arriva un messaggio di mio fratello che mi chiede sai dov’è la Giuli, non è tornata a casa. Ero in bagno, sono scoppiata a piangere. Ho capito subito».

Ha capito che l’aveva uccisa?

«Ho capito che le era successo qualcosa. Sì, ho pensato anche a quello. Non riuscivo a mangiare, non facevo che piangere. Io lo so come sono queste dinamiche, le conosco bene: so come si comporta una persona morbosa di gelosia che ti isola, che non ha amici, che non ama il suo lavoro e ti dice ‘tu sei tutto per me sei la luce’. È un copione sempre identico. Poi certo non tutti i possessivi diventano assassini ma è sempre così che comincia».

C’erano dei segnali? Lei l’aveva messa in guardia?

«Sì, le avevo parlato. Ora ovviamente sento che avrei potuto fare di più. Le ho detto che avevo paura di lui e del suo comportamento. Era una relazione di controllo e di abuso. Ma all’inizio di una storia scusi tutto. Lui voleva essere presente in ogni cosa della vita di Giulia. Lei non poteva uscire con le amiche senza dirlo, quasi dovesse chiedere permesso. Non le lasciava spazio, non voleva che lei avesse una vita al di fuori di lui. Alla mia festa di compleanno avevo invitato solo lei. Lui ha tormentato di messaggi Giulia per tutta la sera e poi ha scritto anche a me».

Perché non l’ha invitato?

«Avevo antipatia per il modo in cui trattava mia sorella, ma non sono mai stata maleducata. Non avevo pregiudizi su di lui all’inizio, col tempo ho capito che tipo di persona era e di conseguenza lo tenevo a distanza. Una volta mi ha cercata al telefono perché Giulia non gli rispondeva. Inizialmente gli ho risposto dicendogli “lasciale un po’ di aria, lasciala stare”. Lui insisteva. Alla fine l’ho bloccato».

E Giulia non si accorgeva?

«Certo che Giulia si è accorta che qualcosa non andava, sapeva che io avevo ragione ma come fai a immaginare che la persona con cui stai possa farti del male, non lo vuoi credere possibile. Può persino succedere in qualche momento che tu lo difenda agli occhi degli altri per difendere la tua scelta e per non essere giudicata. Giulia aveva sempre paura di deludere le persone. Ci sono cose di cui non ha parlato nemmeno con le amiche, magari a dirle ti vergogni. Adesso mi chiedo: sarà stato anche violento e lei non lo ha detto a nessuno? Lui la ricattava a livello emotivo, le diceva se mi lasci mi ammazzo, non ho nessun altro che te».

È vero che non voleva che lei si laureasse prima di lui?

«È vero ed è stato il motivo della loro prima rottura. All’università lui andava male, a febbraio le aveva detto: rallenta gli esami, non voglio che ti laurei prima di me. È stato lì che Giulia lo ha lasciato. C’era però una vacanza a Praga programmata, avevano già i biglietti, mia sorella ha deciso di dargli un’ultima possibilità. Sono tornati insieme per due mesi, lo ha lasciato di nuovo a luglio».

Dopo cosa è successo?

«Lei era una persona buona. Aveva davvero paura che lui si facesse del male. Aveva paura per lui, non di lui. Voleva aiutarlo, credo proteggerlo».

Ai funerali quasi nessuno ha fatto le condoglianze a suo fratello. Mi sono chiesta come deve essersi sentito. Come si senta.

«Se non le dispiace non vorrei parlare di mio fratello. Ha 17 anni, è giusto che sia lasciato in pace. Sono molto fiera di lui. Moltissimo. Solo questo sento di dire».

Avete perso vostra madre molto giovani.

«Anche di mia madre faccio fatica a parlare. Nessuno di noi figli si aspettava che potesse morire».

Ho letto che era ammalata di tumore, una condizione comune a moltissime persone. Penso alle famiglie di chi è malato, le chiedo perché dice che non vi aspettavate la sua morte? Non pensare la morte è un meccanismo di difesa?

«Penso che i nostri genitori possano aver deciso, legittimamente, di non dirci proprio tutta la verità. Mamma si è ammalata di tumore al seno nel 2015. Io avevo 16 anni, mio fratello 9. Si è operata, è stata bene qualche anno poi nel 2019 si è ammalata di nuovo. Credo che tante cose non ce le abbiano dette per proteggerci. Siamo andati a fare una gita il giorno di Ferragosto, l’anno scorso. È stato un giorno felice. Il 20 ottobre è morta».

Lei ha fatto la tesi di triennale sul tumore alla mammella.

«Non so dirle se dipenda solo da quello. Io studiavo già biologia. È la mia passione fin da piccola, mi sono sempre chiesta il perché delle cose e ho sempre pensato che la scienza sia così stimolante perché c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire. Vorrei fare ricerca sui virus. Certo. Quando è morta mamma ho sentito tanta pressione addosso, un grande senso di responsabilità. Mi è capitato di avere attacchi di panico mentre studiavo. Ora che è morta anche Giulia, si immagini. Ho crisi di ansia quando si parla di coltelli. Vorrei essere così brava da dire che studio per migliorare il futuro dell’umanità, per risarcire i lutti e provare a evitarne altri ma no. In fin dei conti sto solo cercando di fare del mio meglio».

Pensa che tornerà a vivere in Italia?

«Se potessi lo farei. Ho studiato e vissuto a Londra, in Finlandia, ora a Vienna. Mi sembra di aver lasciato un po’ di me stessa in ogni posto. Non so la mia “foverer home” dove sia. Ma vorrei fare ricerca e la ricerca in Italia è così mal pagata, pochissimo riconosciuta, allora le dico non so. Se immagino un’offerta che mi consenta di essere indipendente la penso all’estero: è un grande problema, questo. Amo l’Italia, i luoghi dove sono cresciuta, il Veneto. È un grande errore politico che il governo non finanzi la ricerca, che lasci andare le persone più giovani e preparate per incapacità di dar loro la giusta posizione, retribuzione. È gravissimo e non intendo accettarlo».

Vede la politica nel suo futuro?

«La politica è nel mio passato e nel mio presente. Ma ci sono anche gli studi. L’arte. Le cose che mi fanno essere quella che sono. Poi certo c’è la nostra storia personale. Ma non voglio fare politica in nome di Giulia, diventare la testimonial del nostro lutto. Così come non voglio che Giulia sia ricordata solo come la vittima del suo assassino, ripeto. Era questo il senso del mio discorso al funerale. Aveva imboccato la strada della felicità. Vorrei che fosse questo, semmai, il suo lascito. Andiamo verso la felicità».

Qual è il suo pensiero ricorrente?

«Il dolore che deve aver provato in quelle ore. Immaginarlo mi tormenta. Vorrei essere stata al posto suo. Avrei accettato dieci volte quel dolore per evitarglielo. Io per lei sarei morta. Lo dico tranquillamente. Sarei morta per difenderla».

Ha mai parlato con i genitori di Turetta?

«No, non so se mio padre lo abbia fatto ma io no».

Li considera in qualche modo responsabili?

«La colpa è personale. Cosa diversa è la responsabilità. Quando sento dire non so chi sia mio figlio rispondo: parlaci. Se non comunichi, in famiglia, anche a costo di rischiare di sapere quel che non vorresti, certo che non conosci chi ti vive accanto. Io avevo ben presente che persona era Turetta e lo avevo incontrato poche volte. Se parli con qualcuno lo capisci. Parlate, parlatevi tutti. È il pericolo minore, e sempre qualcosa si impara».

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