Fabrizio Gifuni: “Ho iniziato con uno scherzo telefonico. Adesso racconto Pasolini e Moro, i fantasmi della Repubblica che ci chiedono coraggio”

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Fabrizio Gifuni, 57 anni, intona la voce di Aldo Moro: “Con il vostro irridente silenzio…”. Alle pareti foto di Pasolini e Volonté calciatori. Libri impilati. Un cd di Chet Baker. E’ stato vivido anche in Mixed by Erry.

Come si chiamava il personaggio del film?

“Arturo Maria Barambani”, risponde con cadenza milanese.

E lo imita con gusto.

Da martedì torna in scena con Pasolini e Moro. “Fraterno e lontano, Pasolini per me”, scrive Leonardo Sciascia ne L’affaire Moro. E dev’essere accaduto qualcosa di simile anche a Gifuni – un sentimento d’affezione sepolto che chiede spazio e voce – se da anni se ne fa compagnia. Riparte con due spettacoli distinti ma collegati al Teatro Della Pergola a Firenze: Il male dei ricci, dedicato a Pasolini, dal 28 al 30 novembre; Con il vostro irridente silenzio, sulle carte di Moro, dal 1 al 3 dicembre. Dall’8 al 14 gennaio, si replica al Teatro Parenti a Milano. Poi le parole di Moro e un lavoro su Caproni viaggeranno ad Agrigento, Napoli, Riccione, Salerno, Sorrento e Pescia.

Cos’è per lei il palcoscenico?

“Quando sono in teatro sto meglio fisicamente e mentalmente. Respiro meglio. Ritrovo ancora in questo luogo ciò che fuori è andato perduto: umanità, ascolto, corpi vivi, un senso più profondo della politica fatta di condivisione e confronto con la complessità”.

©Musacchio, Ianniello & Pasqualini

Com’è nata la sua vocazione?

“Nel mio liceo, il Dante, nel 1982 organizzarono un laboratorio teatrale. Mettemmo in scena Giulietta e Romeo, io avevo il ruolo di Mercuzio. Sentii una sensazione mai provata prima di libertà, di strana felicità. Il mio corpo era come più leggero. Avevo 15 anni”.

E’ stato difficile convincere la sua famiglia borghese che voleva fare l’attore?

“Come tutti i bambini avevo un talento mimetico. Ho raccontato più volte che un giorno, a dieci anni, chiamai al telefono mia nonna imitando la voce di un vecchio zio, ottantenne. Nonna non si accorse di nulla, chiacchierò, si commosse, alla fine ringraziò zio Carlo della bella compagnia. Quando, con un minimo senso di colpa, lo raccontai ai miei, mi dissero che avevo fatto ‘una cosa bellissima’. E siccome la nonna si sentiva molto sola, m’invitarono a farlo ancora. E così feci”.

Un incoraggiamento ad andare avanti?

“Involontariamente sì, ma anche, per me, la scoperta di un potere mostruoso: poter rubare l’anima a qualcuno”.

Quando ha scoperto Pasolini?

“A vent’anni. Fu una folgorazione insieme a quella per Gadda, la mia magnifica ossessione. Fino a quel momento avevo letto poco, non sono stato un lettore precoce, durante l’adolescenza leggevo molti fumetti e cose sportive”.

Cosa bisogna aspettarsi dallo spettacolo su Pasolini?

“La sconvolgente acutezza del suo pensiero attraverso una rilettura di molte pagine della sua opera, da Ragazzi di vita agli Scritti corsari, dalle Lettere luterane alle sue poesie”.

Moro era, per Pasolini, il meno implicato di tutti. Ma comunque figlio del sistema. Lei li accomuna. Non è una contraddizione?

“La suggestione dell’accostamento nasce dal loro essere, oggi, presenze fantasmatiche. Corpi non pacificati cui non è stata data degna sepoltura e su cui inciampa di continuo la società italiana, per non averci fatto i conti fino in fondo”.

Ma cosa li lega?

“La solitudine e l’isolamento dell’ultimo periodo delle loro vite. Muoiono entrambi per mano violenta. Moro è vittima di un tradimento shakespeariano. Pasolini negli ultimi anni di vita discute disperatamente con tutti, anche con i suoi amici, non si dà pace”.

E cosa vede?

“Cose oggi sotto gli occhi di tutti: l’inarrestabile violenza della società dei consumi, l’omologazione culturale, gli scempi urbanistici, l’uso violento della televisione usata come una clava, il nuovo potere tecnocratico che ha già sostituito le vecchie ideologie. Una sofferenza poco compresa allora”.

Quelli come Moro però Pasolini voleva processarli.

“E Moro davvero finirà per subire un processo, ma non sarà il processo pubblico alla DC immaginato da Pasolini. Sarà un processo a porte chiuse, senza testimoni, chiuso con una condanna a morte.

‘Esterno notte’. Bellocchio rilegge il dramma di Moro

Le carte degli interrogatori emersero dal covo di via Montenevoso a Milano, in due tranche, nel 1978 e nel 1990…

“Quella del recupero delle carte è una vicenda complessa di cui parlo nello spettacolo. Dodici anni dopo il sequestro, appena caduto il Muro di Berlino, cadrà, non a caso, l’altro muricciolo, un’intercapedine dell’appartamento milanese utilizzato dai brigatisti. Da allora le carte diventano pubbliche. Una sola domanda andrebbe fatta ai brigatisti superstiti: perché, al contrario di quel che avevate annunciato, non rendeste noto nulla al ‘popolo’?”.

Qual è stata la loro risposta?

“Cose un po’ grottesche, dicono che non avevano capito bene cosa Moro gli stava dicendo o che non c’era niente di importante. E invece Moro, in quegli interrogatori, e nel famoso Memoriale, parlava di tutto, rivelava segreti che i brigatisti decideranno di tenere nascosti”.

Cosa ne deduce?

“C’è la fondata sensazione che la vera trattativa si sia svolta molto più su quelle carte che non sulla sua salvezza, su cui pure qualche tentativo fu fatto.”.

Perché le lettere “dalla prigione del popolo” sono ancora attuali?

“La gente dopo ogni rappresentazione mi chiede: ‘Ma queste cose Moro le ha dette davvero?’. E inizia a riallacciare dei fili che portano fino al nostro presente”.

Anche se sono documenti di 45 anni fa?

“Parlano di un’Italia che non c’è più ma portano già il presagio dell’Italia che verrà”.

Insomma, il sequestro è una cesura?

“Anche il delitto di Pasolini lo è. Entrambi spalancano il nostro sguardo sull’Italia che verrà e nella quale siamo immersi ancora oggi. Dopo Moro si apriranno gli anni Ottanta, quelli dell’edonismo, del rifugio nel privato. Forse non a caso il leader del decennio successivo, Bettino Craxi, fu uno dei pochi a battersi contro la linea della fermezza. A margine del sequestro si giocò anche una partita politica”.

Che Italia nasce lì?

“Nasce la figura del leader solitario, accentratore, la personalizzazione della politica. L’asse si sposta dal Parlamento al governo. Il cosiddetto craxismo sarà la matrice di molti futuri leader, da Berlusconi a Renzi. Se si vuole modernizzare un Paese non si dovrà andare troppo per il sottile con il senso etico: servirà un uso spregiudicato del flauto per incantare le masse”.

Quindi i suoi spettacoli sono un’operazione di memoria?

“Anche. Ma la memoria del passato da sola non basta. Quelle parole, attraverso il rito laico ma pieno di mistero del teatro, ci devono portare all’oggi, altrimenti servono a poco. E questa società non la comprendi per nulla se non ti volti indietro.”.

Il pubblico come reagisce?

“Avverte un crescendo emotivo. Gli spettatori che per me sono i rappresentanti della città, sono parte attiva dello spettacolo, sono anch’essi corpi di scena. Per questo ogni sera dico ‘Vediamo insieme che succede stasera…’”.

Come ci parla Moro?

“Moro è netto nella sua lingua, di una chiarezza cristallina: molto diversa da quella usata fino al momento del sequestro e su cui Pasolini aveva esercitato una serrata critica. E’ libera, Moro è straziato ma liberato da ogni peso e prudenza. Con lampi di nera ironia: ‘Con il vostro irridente silenzio…’, scrive a Zaccagnini. ‘Con la vostra mistica inerzia…’”.

La sua è una resa dei conti?

“Finalmente Moro sente di poter dire quello che non aveva mai detto. Si percepisce una rabbia progressiva, sempre meno trattenuta, che lo porta a dire cose impensabili. ‘Davvero queste cose le diceva Moro?’, mi chiedono ogni volta”.

Per molti Moro era “drogato”.

“E’ una delle cose che più lo ferì. Quando ne parla, urla: ‘Ma come vi permettete? Avete capito dove mi trovo?! Perché mi state facendo questo’”.

Perché Moro non cita mai la scorta uccisa?

“Fu un argomento velenoso agitato dai suoi avversari”.

Ma rimane una stranezza.

“Moro sa che quel terribile eccidio sarà strumentalizzato per non trattare. E così fu. Da Andreotti in primis. Resta il fatto inconfutabile che per tutti si è trattato, prima e dopo, salvo che per Moro”.

Ricorda la prima volta che ha letto pubblicamente le sue carte?

“A Torino, per l’inaugurazione del Salone del libro, il 9 maggio 2018. Alle Officine grandi riparazioni. Era un esperimento. Mille e duecento persone in un silenzio difficile da raccontare”.

Più libri più liberi, il dibattito sugli anni ’70, Gifuni: “Se tagliamo i fili della memoria il presente diventa un incubo distopico”

Cosa pensa degli anni Settanta?

“Che furono gli anni del terrorismo, rosso e nero, delle stragi di Stato, della P2, ma anche gli anni in cui si fecero straordinarie riforme: lo Statuto dei lavoratori, la Legge Basaglia, i referendum sul divorzio e l’aborto. Un’estensione importantissima dei diritti che si contrappone a un’erosione continua degli stessi diritti nei decenni successivi”.

Moro e Pasolini s’incontrano mai?

“Un paio di volte. C’è una foto molto bella dei due, alla prima di Mamma Roma, a Venezia, nel 1962”.

Pasolini oggi non è più citato che letto?

“Anche Moro. Ogni tanto qualcuno tira fuori una frasetta, o cita un pezzo di discorso, ma quasi sempre in maniera strumentale”.

Lei ha interpretato Moro due volte al cinema.

“La prima nel 2011, per Romanzo di una strage. Un Moro giovane ministro degli esteri, all’epoca della bomba di piazza Fontana. Ricordo che quando me lo chiese Marco Tullio Giordana pensai: ‘Ma che c’entro io? Sono troppo distante’”.

Poi perché Bellocchio l’ha scelta per Esterno notte?

“Marco è venuto a vedere il mio spettacolo a teatro, mentre stava preparando la serie e ne è rimasto affascinato. Bellocchio è uno dei pochi registi cinematografici, insieme a Nanni Moretti e ai fratelli Taviani che frequenta da sempre i teatri”.

Sono vent’anni da La meglio gioventù.

“Il 3 dicembre, al cinema Troisi, ci sarà una non stop, l’intero film dalle 17 alle 23. Prima e dopo la maratona ci ritroveremo tutti insieme, regista sceneggiatori e interpreti. Insieme ai nostri figli che sono nati nel frattempo. Io sarò a Firenze, ma prenderò un treno per raggiungere tutti, non posso mancare”.

E’ il film con cui la identificano?

“Ultimamente mi identificano con Moro. All’estero con La meglio gioventù, persino in Giappone. E’ stato un film che ha lanciato una nuova generazione di attori, con Luigi Lo Cascio e Alessio Boni avevamo frequentato lo stesso corso alla Silvio d’Amico. Con Gigi abbiamo anche condiviso casa”.

E siete rimasti amici?

“Non ci siamo mai mollati”.

E’ stato difficile entrare in Accademia?

“Ne presero una ventina, su 600-700 domande. Io inizialmente mi iscrissi a legge, non ero ancora sicuro di voler fare davvero l’attore. Il limite d’età era di ventun anni, feci il militare, e quando tornai scoprii che avevano alzato l’età per l’iscrizione a 23: i miei anni in quel momento. Lo colsi come un segno”.

Il suo cinema si può definire politico?

“Tutto il cinema e tutto il teatro lo sono. Si raccontano storie che hanno un’incidenza sulla vita delle persone”.

Il teatro è un porto franco?

“E’ la casa dei fantasmi, della magia, dell’immaginazione da più di 2500 anni”.

Forse per sfuggire a una realtà deludente?

“No, non per sfuggire ma per starci in contatto in un modo più umano. Viviamo una realtà molto poco rassicurante che ci parla di guerre, di donne a cui viene tolta la vita da uomini armati, intrisi di cultura patriarcale, di un pianeta saccheggiato dalla nostra avidità.

Quali sono i suoi ultimi progetti?

“Ho finito di girare la quarta stagione de L’amica geniale e il nuovo film di Francesca Comencini su suo padre, Luigi. Ora per tre mesi solo teatro”.

Qual è il male dell’attore? La precarietà?

“Ci sono tanti interpreti bravissimi che faticano ad arrivare alla fine del mese. Insieme a Unita, l’associazione di attrici e attori di cui faccio parte – ai sindacati, alle altre associazioni di categoria e alle forze politiche che si sono messe in ascolto, siamo riusciti a costruire, dopo anni di lavoro, una legge storica, fondamentale per tutto il comparto, che prevede un’indennità di discontinuità, riconoscendo la natura intermittente del nostro lavoro. Questo governo, tradendo i lavoratori, ha stravolto questa legge trasformandola in un’ennesima misura assistenziale”.

Non va bene?

“Per niente. Si è trasformata una vera legge sulle politiche del lavoro in un bonus assistenziale, distraendo fondi già stanziati per la legge vera. E’ una presa in giro di una gravità assoluta”.

Cosa la colpisce di questo tempo?

“Che bisogna avere un’opinione su tutto, subito. Le competenze sono diventate un optional. Non c’è più differenza tra uno scienziato e uno che si improvvisa tale, si fa tutto da casa”.

E’ una regressione amplificata dai social?

“Sì, e paradossalmente è diventato più difficile far sentire la propria voce. Io rivendico il diritto di dire: “Non lo so, ci sto pensando, devo approfondire di più”. Vorrei parlare solo attraverso il mio lavoro.

Manca un Pasolini?

“La risposta è scontata. Mi preoccupa di più che il termine intellettuale sia diventato un insulto. Una persona inutile che rompe le scatole. Ma un Paese senza voci critiche, senza artisti, è un Paese senz’anima”.

Cos’è richiesto?

“Una buona dose di coraggio. Avverto un’aggressione fisica, verbale, verso le voci fuori dal coro, molto preoccupante”.

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