Gaza, accordo vicino. Tre fasi per cessate il fuoco e ostaggi: “Prima donne e anziani”

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TEL AVIV — «L’accordo sugli ostaggi è più vicino che mai ma non imminente». In questo involontario ossimoro pronunciato da John Kirby si perdono e si ritrovano le speranze di 136 famiglie che da quasi quattro mesi attendono il ritorno a casa dei propri cari, tuttora nelle mani di Hamas. Che, nonostante l’impatto devastante dell’invasione delle forze armate israeliane, è ancora in grado di colpire: lo dimostrano gli undici razzi lanciati ieri su Israele e abbattuti dalla difesa aerea. Non accadeva da tre settimane.

Il portavoce del Consiglio di Sicurezza della Casa Bianca, dunque, diffonde ottimismo sulla trattativa tra Israele e Hamas, condotta con l’intermediazione di Egitto, Qatar e della Cia. Kirby ammette però di non aspettarsi la soluzione «da un giorno all’altro». È fiducioso il primo ministro del Qatar, presente anche lui a Parigi alla riunione degli intermediari. «Abbiamo fatto progressi nella definizione della cornice dell’accordo», dice Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani. «Faremo avere le proposte a Hamas. I colloqui potrebbero portare a un cessate il fuoco permanente». Assai più cauti gli israeliani, un po’ perché non si fidano del Qatar (Netanyahu è tornato ad attaccare il governo qatarino perché «ospita e finanzia Hamas»), un po’ perché «la strada da percorrere è lunga» e «ci sono condizioni che non possiamo accettare» E un po’ perché, come vedremo, le mosse dei ministri e di esponenti del Likud rischiano di mettere in pericolo la trattativa.

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Tre fasi

La bozza di intesa che è stata sottoposta a Hamas prevede tre fasi. La prima è una pausa dei combattimenti di 6 settimane che porterebbe al rilascio di 35-40 ostaggi: le donne, gli over 60 anni e chi è malato o ferito. La proposta prevede di impiegare le 6 settimane per discutere le condizioni di una seconda fase, in cui saranno liberati i soldati maschi e i civili sotto i 60 anni. La terza e ultima fase dovrebbe riguardare la riconsegna dei corpi degli ostaggi morti (una trentina i decessi). Altre clausole dell’accordo rimangono poco chiare, per esempio il numero di prigionieri palestinesi scambiati per ogni ostaggio e la quantità di aiuti umanitari da far entrare ogni giorno a Gaza. E soprattutto, non si capisce se Hamas sia disposto ad accettare un accordo per rimandare a casa tutti gli ostaggi che non includa condizioni per un cessate il fuoco permanente e il ritiro delle truppe dalla Striscia.

Si va comunque avanti, nel pieno della bufera politica scatenata dalla presenza di undici ministri e molti membri di spicco del Likud, il partito di Netanyahu, alla convention dei movimenti estremisti tenutasi domenica sera a Gerusalemme e che aveva come tema il ritorno degli insediamenti ebraici nella Striscia, e l’«emigrazione volontaria», leggasi: espulsione, dei palestinesi dalle proprie terre. Il ministro dell’estrema destra messianica Itamar Ben-Gvir la considera «la soluzione morale più logica». Shlomo Karnhi, ministro del Likud, teorizza che l’emigrazione volontaria debba essere conseguita con la forza.

Governo spaccato

Parole incendiarie e sconsiderate in generale, a maggior ragione quando è in corso la trattativa con Hamas. E infatti il generale Benny Gantz, uno dei cinque ministri chiamato a far parte del gabinetto di guerra, sostiene che quella convention «danneggi la società israeliana in tempi di guerra, danneggi la nostra immagine nel mondo, danneggi gli sforzi per far tornare gli ostaggi a casa». Critiche sul meeting «per la ricolonizzazione di Gaza» sono arrivate anche dai governi di Francia e Stati Uniti. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dovuto rassicurare i diplomatici americani, impegnandosi a non permettere la costruzione di nuovi insediamenti nella Striscia e specificando anche che la “zona cuscinetto” in corso di realizzazione lungo i quasi 60 chilometri della recinzione «è temporanea e solo per ragioni di sicurezza».

Mentre continuano i lanci di razzi della milizia libanese Hezbollah a postazioni israeliane a Nord, il Pentagono fa sapere che sull’attacco di lunedì alla base in Giordania, dove sono morti tre soldati americani, «ci sono le impronte degli Hezbollah iracheni, sostenuti dall’Iran. Non stiamo cercando la guerra», ha detto la portavoce Sabrina Singh. «E crediamo che nemmeno l’Iran la voglia».

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