Giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti: “Noi continuiamo ad essere discriminati, tenerci confinati nei campi conviene alla politica”

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Per anni Ervin Bajrami ha continuato a nascondersi ogni volta che sentiva il rumore di un aereo: “Pensavo venissero a bombardare casa mia”, racconta. Quando è fuggito dalla guerra del Kosovo con la sua famiglia aveva solo otto anni. Poi, arrivato in Italia, è diventato spettatore e oggetto dei pregiudizi e delle discriminazioni riservati alle persone rom nel nostro Paese. Oggi è attivista per il movimento transnazionale Kethane e nella Giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti di oggi ricorda la ghettizzazione a cui queste comunità continuano a essere soggette.

Cosa ricorda dell’infanzia in Italia?

“Quando io e la mia famiglia siamo arrivati a Bergamo abbiamo ricevuto tanto sostegno, le persone erano ancora solidali. La mia città mi ha dato tanto, perché mi ha permesso di studiare, fare attivismo e mi ha permesso di conoscere persone che sono state dei mentori. Di questo sono grato”.

Nessun pregiudizio?

“Certo, non sono mancati. Nella mia vita sono stato discriminato due volte, prima perché rom e poi in quanto gay. Persino la comunità Lgbt+ si è rivelata intollerante, perché vivendo in una società maggioritaria anche noi minoranze ci facciamo influenzare da stereotipi e pregiudizi”.

Secondo l’Associazione 21 luglio in Italia esistono ancora 119 campi, dei veri e propri ghetti etnici riservati a cittadini identificati come rom o sinti. Qual è la situazione all’interno?

“È un contesto di degrado istituzionalizzato. Si pensa che le persone vogliano vivere così, ma tanti prima arrivare in Italia vivevano in case normali e avevano una vita perfetta, poi sono stati confinati lì. Adesso ci sono campi ancora aperti da 40 anni in cui continua a stanziare una terza generazione di persone rom nate e cresciute in Italia”.

Perché non vanno altrove?

“Tanti sono senza documenti, spesso bastava un fermo perché venisse sequestrato il passaporto. I bambini invece venivano inseriti nelle classi differenziali, lontani dagli altri alunni, dove ricevevano un’istruzione inesistente e non gli si insegnava nemmeno a leggere e scrivere. Quindi hanno imparato a vivere lì senza conoscere la vita all’esterno”.

Oggi la dispersione scolastica continua ad essere alta.

“Una legge anni degli anni ‘70 ha chiuso le classi differenziali, ma ci arrivano diverse testimonianze di bambini che continuano a essere emarginati perché si pensa non siano in grado di imparare. I genitori non decidono da un giorno all’altro di non mandare i figli a scuola, ma le discriminazioni da parte di compagni e insegnanti non li fanno sentire al sicuro. Altri poi hanno paura che gli vengano portati via: i bambini rom costituiscono il 14 per cento dei decreti di adozione nel Lazio, perché con troppa facilità si sceglie di allontanarli dalla sfera affettiva”.

Sempre di più le persone rom vengono associate alla criminalità.

“Sì lo stereotipo per eccellenza è quello della borseggiatrice che si fa mettere incinta per non andare in carcere. Nella realtà, invece, tante si ritrovano da sole a dover sfamare i propri figli. È vero però che chi ha la residenza all’interno del campo ha più difficoltà a trovare lavoro e accade che per sopravvivere sia costretto a ripiegare sull’elemosina o furti. In questa situazione di disagio sociale la criminalità organizzata può infiltrarsi facilmente e approfittarne”.

I casi di cronaca di questo tipo sembrano aumentare.

“Si insiste nel raccontarli per pura propaganda. Su 180mila persone rom e sinti censite in Italia se ne vedono 20 rubare e 40 occupare casa e l’idea è che siano tutti così. Non si troveranno mai notizie positive che decostruiscano questa narrazione, perché è funzionale a partiti come quelli che governano oggi per arrivare al potere”.

Attecchisce facilmente, quindi.

“Gli ultimi dati rivelavano che l’80% delle persone in Italia prova odio nei confronti delle persone rom e sinti. Della loro sicurezza non si parla mai, eppure sono vittime di atti di violenza ripetuti. Ma la discriminazione è prima di tutto istituzionale”.

In che modo?

“Non siamo riconosciuti come minoranza etnico-linguistica, anche se abbiamo una cultura, tradizioni, una lingua millenaria e professiamo tutte le religioni del mondo. Abbiamo anche una nostra bandiera, che non ha mai sventolato in nessuna guerra, ci tengo a ricordarlo. Esiste dal 1971, giorno in cui abbiamo deciso di iniziare a festeggiare questa giornata per autodeterminarci. Ma la cosa peggiore, forse, è che il nostro genocidio nei campi di concentramento non è mai stato riconosciuto”.

Adesso i campi sono in fase di smantellamento.

“Quasi mai però viene avviato un dialogo con chi li abita. Sarebbe bello creare un tavolo istituzionale, invece li si informa a decisione prese. Le sistemazioni poi sono temporanee, ma se non si insegna come pagare le bollette o trovare un lavoro, dopo due anni si tornerà al punto di partenza. E a quel punto, dopo aver speso un sacco di soldi, sarà di nuovo un problema per tutta la collettività”.

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