Helga Schneider: “Racconto l’omofobia al tempo di Hitler”

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“Non è triste che nella propria patria ci si debba difendere? Come vorrei vivere in un Paese e in un’epoca in cui l’omosessualità non sia considerata reato e dove ognuno possa amare alla luce del sole”. “Sono sicuro che prima o poi succederà, anche se ci vorrà qualche decennio”. “Forse fra qualche secolo”. Nello scambio di battute tra due dei protagonisti dell’ultimo romanzo di Helga Schneider, 83 anni, scrittrice tedesca naturalizzata italiana – l’italiano è la lingua con cui ha scelto di scrivere i suoi libri, sin dall’esordio, non giovanissima, nel 1995, con Il rogo di Berlino (Adelphi) che l’ha resa famosa – c’è tutta la drammatica attualità di questo suo Bruceranno come ortiche secche, pubblicato ora dall’editore Oligo. Che racconta, in un altro potente affresco della Germania degli anni Trenta a cui l’autrice ci ha abituato, di “relazioni pericolose ai tempi di Adolf” (Hitler), come recita anche il sottotitolo.

L’abbiamo raggiunta a Bologna, dove vive dal 1963, scegliendo l’Italia come sua patria di adozione e dove negli ultimi venti anni ha svolto un grande “lavoro” di testimonianza – sia con i suoi libri sia con incontri nelle scuole – raccontando la vita ai tempi del nazismo e della Seconda guerra mondiale, abbandonata piccolissima da una madre fanatica a tal punto da scegliere Hitler invece dei suoi figli. Il rapporto mai risolto con la madre, da lei più volte rinnegata, Helga Schneider lo ha raccontato nei suoi precedenti romanzi, uno su tutti Lasciami andare madre (pubblicato sempre per Adelphi nel 2001), e anche in questo ultimo libro la figura di una madre che collabora con il regime per “stanare” gli omosessuali e sino alla fine si rifiuta di riconoscere che tra questi c’è pure suo figlio, sparandosi piuttosto un colpo di pistola alla testa, verrebbe da pensare possa essere stata, anche inconsapevolmente, in alcuni tratti modellata sulla sua.

La scrittrice Helga Schneider, è nata in Slesia nel 1937: vive a Bologna dal 1963 

Ha scritto molti romanzi sulla Germania hitleriana. E ora questo, che sempre in quegli anni si svolge. Perché?
“Erano anni che lo avevo in mente. Quando nel 2003 fui invitata ad Amburgo, a parlare di uno dei miei libri, mi pare proprio Il rogo di Berlino, mi sono imbattuta in una documentazione sulla persecuzione degli omosessuali durante il Terzo Reich. Era una pubblicazione uscita dagli archivi nella Ddr: fino al 1990 si sapeva molto poco delle persecuzioni omosessuali, ogni testimonianza era stata distrutta dai nazisti quando capirono che la guerra non poteva essere vinta. Era un grosso volume, me lo sono letto con grande interesse, poi però l’ho lasciato in un cassetto, dedicandomi ad altri libri, che ho scritto uno dopo l’altro. Da un paio d’anni stiamo assistendo a eventi di omofobia, sia in Europa che in Italia: mi sconvolge ogni volta vedere in televisione o leggere di questi ragazzi che vengono picchiati, è vergognoso. Non solo: internet amplifica tutto questo odio, in Rete sembra che tutto si può dire. Quando uno storico che insegna in una università offende una leader politica, tanto per arrivare agli ultimi fatti di cronaca e alle offese a Giorgia Meloni, io sono indignata. Ma torniamo al libro: ho tirato fuori questa documentazione, me la sono riletta e mi sono detta adesso scrivo una storia d’amore, perché questa è la storia di un amore tra due ragazzi nel Terzo Reich, nei primissimi mesi, appena Hitler è stato nominato cancelliere, ma già c’è un clima di terrore. Fu subito chiaro ai tedeschi infatti che Hitler e il suo governo avevano preso di mira gli ebrei e gli omosessuali, contro i quali la persecuzione è cominciata subito, con le retate nei locali, gli arresti”.

Con una retata si apre anche il romanzo. E di unaltra retata saranno alla fine vittime i due protagonisti…
“Proprio così. I protagonisti sono due bravi ragazzi, che passano attraverso quest’atmosfera terrificante. Il mio scopo non era scrivere una storia di due omosessuali: ho cercato di prendere per mano il lettore e portarlo a vivere questo amore, ho evitato qualsiasi scena scabrosa. Lo scopo era ricordare che l’omofobia, dopo decenni, dopo tutto quello che hanno fatto i nazisti, è ancora un problema attualissimo. Nel romanzo i due ragazzi finiscono nella famosa prigione Columbia Haus a Berlino, che poi diventerà campo di concentramento: il mio è un monito. Interessanti anche le figure dei due genitori: il padre di Julian allineato col nazismo, che ha per compito proprio quello di combattere l’omosessualità; ancora più dura e rigorosa in questa battaglia è la madre dell’altro ragazzo. Quando scoprono che i loro figli sono proprio quelli a cui stanno dando la caccia nella loro campagna di moralizzazione del paese, hanno due reazioni molto diverse. Di solito sono le madri che reagiscono meglio, in questo caso per non essere troppo ovvia ho pensato di fare il contrario. Sarà il padre di Julian alla fine a salvarli tutti e due”.

Quanto c’è di autobiografico?
“Allora: io ho un figlio omosessuale, non è un segreto, ma non ho scritto questo libro per lui. Ovviamente quando leggo che di nuovo sono stati picchiati dei ragazzi omosessuali sono più sensibile all’argomento. Ma con questo libro volevo dire che siamo nel 2021, ci vuole una cultura del diverso: non solo gli omosessuali, penso anche ai ragazzi con la sindrome di Down, ai quali pure in passato ho dedicato un libro. Abbiamo approvato una legge sulle unioni civili, è assurdo che ancora vengano discriminati, nelle scuole, nelle fabbriche. Di questo si dovrebbe parlare nelle scuole. Adesso mi hanno contattato per fare delle videoconferenze”.

Lei è stata molto attiva nel portare la sua testimonianza nelle scuole…
“Ero attivissima, ho girato tutte le scuole in Italia per diciotto anni. Poi ho dovuto sospendere in seguito a una operazione seria alle anche, ma ora sto benissimo”.

In tutti i suoi libri c’è qualcosa che parla di lei. E in questo? Per esempio, tra i personaggi c’è la zia che si occupa di Julian. Anche lei ha vissuto con una zia…
“È tutta fiction. Solo le parti riportate in corsivo sono prese dalla documentazione, quella è la parte storica. Come tutti i miei libri, anche qui c’è un mix tra fiction e realtà storica che è alla base. Non volevo traumatizzare i lettori, racconto i primi mesi del Terzo Reich, è un libro pulito, con questo amore tra due ragazzi che possono leggere anche i giovani di oggi. Il brutto per gli omosessuali è venuto dopo. Ovviamente le botte qui ci sono”.

E c’è anche il rogo dei libri a Berlino. A quell’evento ha dedicato il romanzo che l’ha consacrata e ora lo ritroviamo anche qui.
“Poiché racconto i primi mesi del regime dovevo – e volevo – inserirlo. È un dato molto interessante, spero, anche per chi lo legge oggi. Ho l’impressione che del nazismo le nuove generazioni ne sappiano sempre meno”.

Ma perché ha esordito nella scrittura 50 anni dopo l’esperienza traumatica che ha vissuto e che, nei suoi libri, sempre racconta?
“Ero già vecchia quando ho pubblicato i miei primi libri (ride, ndr). Ma scrivo da sempre. Ho cominciato da ragazzina, per reazione al fatto di essere stata abbandonata da mia madre, di avere avuto una matrigna che mi ha combattuto tutta la vita e mi ha messo in un istituto per ragazzi difficili pur di liberarsi di me. Ho iniziato molto presto a scrivere tutte le cose che mi accadevano: per stare meglio, per elaborare quel che mi era capitato a Berlino durante il nazismo, nelle cantine, il fatto di avere visto Hitler nel suo bunker”.

A un certo punto ha scelto l’Italia come patria di adozione. Perché proprio il nostro Paese?
“Sono nata in terra prussiana, ho vissuto a Berlino fino al 1948 e nel 1963 sono arrivata in Italia. Sono scappata di casa a 17 anni e sono andata prima a Salisburgo, poi a Vienna, come ho raccontato nel libro I miei vent’anni pubblicato da Salani: ho vissuto da sola, non ne potevo più della mia matrigna. A Vienna ho avuto una storia di quattro anni con un italiano, ma a un certo punto ho saputo che, mentre stava con me, aveva sposato in Italia la sua fidanzata da sempre. Sono andata in crisi e un’amica mi ha accompagnato in viaggio proprio in Italia per riprendermi: a Verona e poi Firenze, dove la mia amica ha pensato bene di piantarmi da sola per un ragazzo di Rapallo. Così ho continuato per Roma e poi ho raggiunto a Bologna un ragazzo che avevo conosciuto nella mia prima tappa a Verona, Elio. Questo accadeva nel 1963: lui mi ha fatto vedere la sua città e ha fatto di tutto per non farmi più ripartire. E io sono ancora a Bologna da allora”.

Certo che ha avuto una vita da romanzo, nel male ma anche nel bene…
“Avrei voluto fare l’attrice, ma poi mi sono messa a scrivere. Tutte queste vicissitudini della vita ti maturano”.

Torniamo all’attualità di questo libro.
“Quando i due ragazzi nel libro pronunciano la frase ‘come vorrei vivere in un paese dove si può amare alla luce del sole’ ci speravano. All’epoca si era appena usciti dalla Repubblica di Weimar che aveva garantito molte libertà, è allora che era sbocciata la cultura omosessuale. Berlino era una città libera e aperta. Poi con Hitler è finito tutto. E oggi, nonostante le unioni civili, soprattutto in Italia siamo ancora indietro come mentalità, come cultura del diverso. Penso a mio figlio Renzo che è sposato con Massimo, sono insieme da 12 anni, non danno fastidio a nessuno, sono due bravi ragazzi anche loro. Questo libro forse è anche per loro, non l’ho scritto per loro però, ma per denunciare che l’omofobia è ancora un problema sociale, come ai tempi in cui i miei due protagonisti cadono vittime di una retata. L’unico paese che all’epoca non perseguiva gli omosessuali era la Danimarca, lì infatti andranno alla fine del libro, con il padre di Julian, diventato dopo questa esperienza un bravissimo genitore che rinnega il suo mestiere, le sue convinzioni e la donna con cui aveva pensato di sposarsi. Che scopriremo essere poi la madre del ragazzo di Julian: convinta nazista, impegnata in una caccia agli omossessuali con tutta se stessa. Tutto il contrario mio, io sono dalla parte di mio figlio. Con lui ho avuto semmai un altro tipo di problema”.

Si è parlato del vostro rapporto burrascoso…
“Non è ancora appianato del tutto. Quando aveva cinque anni l’ho portato con me a Vienna a cercare mia madre. Quella madre che mi aveva abbandonato bambina a Berlino, a soli quattro anni, per seguire il suo fanatismo. Mio padre mi aveva scongiurato di lasciar perdere, ma dovevo cercarla. Così ho preso mio figlio e siamo andati a Vienna, anche lui voleva conoscere la nonna austriaca. Solo allora ho capito: quella visita si è esaurita in 45 minuti, non di più. In quella stanza mia madre mi ha detto la verità: vi ho lasciato perché volevo collaborare con i nazisti, ho fatto la guardiana ad Auschwitz, ne sono ancora convinta, e tutte quelle cose che ho scritto in Lasciami andare madre. Per mio figlio è stato uno choc, lui in me vede anche in parte la criminale di guerra. Questo è sempre stato, ed è tuttora, tra noi un divisorio che non si riesce del tutto a eliminare. Mio figlio ha perso degli amici quando è uscito Il rogo di Berlino. Non ha mai superato che la sua parente più vicina, la madre di sua madre, abbia fatto la guardiana ad Auschwitz e Birkenau. Io ho rinnegato mia madre, ma questo resta un problema di tutti i figli che hanno avuto genitori, in un modo o nell’altro, implicati col nazismo. Non ho mai smesso di chiedermi: ma come ti è venuto in mente? Ma cosa pensavi di fare nei campi di sterminio? Sono domande che dentro di me rimangono senza risposta”.

Ma alla fine lo ha superato?
“No, non ho superato del tutto il ricordo di questa madre, anche se da parecchi anni non c’è più. È morta senza aver più visto i suoi figli. Io l’ho vista solo due volte, la prima nel ’71. All’epoca non conoscendo il suo passato pensavo fosse stata tradita da mio padre e per questo se ne fosse andata. Ma quando ho scoperto che era ancora così fiera, così fanatica di quello che aveva fatto… Mia madre per me è ancora un bubbone. E per mio figlio lo è di conseguenza. Resta un punto nero nel rapporto tra noi, sono rassegnata che questo non potrà mai cambiare molto, ormai ho un’età, ma siamo madre e figlio…”.

Il libro
Bruceranno come ortiche secche. Relazioni pericolose ai tempi di Adolf di Helga Schneider (Oligo editore, pagine 268, euro 16,90)

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