Il pentimento di Schiavone: un terremoto per la sua famiglia divisa tra irriducibili e collaboratori

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Casal di Principe — In via Bologna al numero 8, il portone è sbarrato. Si sente solo il miagolio di un gatto. Francesco Schiavone, “Sandokan”, è cresciuto in queste stanze, che ormai da undici anni sono divise da un muro. Un pezzo della casa è stato confiscato dallo Stato e ora è gestito da “La forza del silenzio”, un’associazione che si occupa di ragazzi autistici.

C’è stato un tempo in cui in questo posto viveva una famiglia unita, e che incuteva timore. Via Bologna era il luogo del comando, la residenza del capo clan. Qui si decideva sulla vita e della morte di tante persone. Si decidevano i destini di imprenditori, aziende e amministrazioni comunali. Ci vivevano il capostipite, Nicola Schiavone, padre di Francesco, la moglie Teresa Diana e poi la numerosa famiglia di Sandokan: la moglie Giuseppina Nappa e sette figli, cinque maschi (Nicola, Walter, Carmine, Emanuele Libero, Ivanhoe) e due femmine (Chiara e Angela). Quella famiglia così unita da sembrare un monolite non c’è più. Nella parte che è ancora la casa di famiglia vive solo Ivanhoe, l’ultimo figlio di Francesco Schiavone, insieme al suo gatto.

Da quando il boss fu arrestato, l’11 luglio 1998, in un bunker in via Salerno, al centro di Casal di Principe, le cose sono molto cambiate. Il primogenito, Nicola Schiavone, che ha preso le redini del clan dopo l’arresto del padre, non ha retto alla tensione. Arrestato nel 2018, pochi mesi dopo ha cominciato a collaborare con la giustizia. Con lui, ha scelto di entrare nel programma di protezione anche la madre, Giuseppina Nappa.

E la stessa scelta ha fatto il fratello Walter nel 2021. Gli altri due figli, invece, Carmine ed Emanuele Libero, pur essendo in carcere, hanno deciso di non seguire i fratelli e la madre. Una posizione che in qualche modo ricalcava quella del padre che fino a poco tempo fa, pur avendo da scontare alcuni ergastoli al 41bis, si mostrava ancora irriducibile, e rifiutava la collaborazione con lo Stato.

Ora invece la sua scelta potrebbe far mutare anche la posizione dei due figli che finora non hanno voluto pentirsi. Così come potrebbe influire sul fratello di Sandokan, Walter, che sta scontando anche lui alcuni ergastoli al 41bis. E c’è ancora un altro parente, il cugino (e omonimo) Francesco Schiavone detto “Cicciariello”, che invece ha deciso da tempo di dissociarsi dalla camorra e ha cominciato a fare ammissioni nei processi su fatti che lo coinvolgono, ma senza accusare altri.

La scelta di “Sandokan” di cominciare a collaborare potrebbe incidere anche su altri due capi clan che oggi sono al carcere duro: Michele Zagaria, il boss di Casapesenna che aveva già manifestato l’intenzione di collaborare, e Francesco Bidognetti, che insieme a Sandokan formava la diarchia a capo del clan dei Casalesi.

Nel clan degli Schiavone c’è un precedente ben noto: il primo pentito dei Casalesi è stato Carmine Schiavone, cugino di Sandokan, che nel 1993 ha rivelato non solo omicidi di cui non si conoscevano gli autori, ma anche la scelta di entrare nel business del ciclo dei rifiuti, che contribuì, negli anni ’90, ad avvelenare buona parte del territorio del Casertano e non solo.

«Io il pentimento di Sandokan l’ho sognato da sempre — dice oggi don Carlo Aversano, uno dei parroci che con don Peppe Diana, assassinato nel marzo 1994, firmò il documento “Per amore del mio popolo” — Gli ho scritto tante lettere e altrettante ne ho ricevute».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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