Il piccolo rifugiato

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Una madre ucraina e suo figlio in cerca di asilo negli Stati Uniti

Una madre ucraina e suo figlio in cerca di asilo negli Stati Uniti (reuters)

Il primo viaggio di questo bambino è il viaggio di un rifugiato. Lui non lo sa. I primi anni della sua vita sono segnati da questo strappo. L’onda d’urto della guerra è centrifuga, produce una diaspora violenta. All’approdo, i corpi portano i segni della traversata. Talvolta, non sopravvivono. Chi accoglie o respinge, vede, può vedere – e tuttavia fatica a immaginare. Chi accoglie o respinge fa anzitutto la conta, l’appello: il numero viene prima delle singole storie. Le singole e specifiche ragioni, paure, disperazioni. La parola ‘rifugiato’ non è una parola facile, anche se l’abitudine di sentirla la fa sembrare tale. Così scrive Abdulrazak Gurnah, l’ultimo premio Nobel per la letteratura, dando voce a un uomo che ‘cerca asilo’.

Lasciare ciò che conosciamo e arrivare in posti strani, trascinando piccoli bagagli affastellati e nascondendo ambizioni segrete e represse. Per alcuni, come per me, è stato il primo volo….

Così pure per il bambino della fotografia. Qualcuno, con un volto inespressivo, chiederà il passaporto. “Rifugiato, dissi indicando il mio petto. Asilo”. La prossimità geografica di questa guerra può aiutarci a comprendere l’altra faccia di ogni guerra, anche di quella più remota? Non lo so. Ma nella parola rifugiato c’è la posta in gioco umana più impegnativa di questo secolo. 

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