Il pompiere caposquadra a Mestre: “I morti, i feriti, le fiamme, il fumo, le urla: avevamo paura ma in quel momento pensavamo solo a salvarli”

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Le emozioni congelate per molte ore, per lasciare spazio il più possibile al senso del dovere e alla vocazione di rispondere a ogni richiesta di soccorso. Quando però i pompieri di turno nella notte della tragedia di Mestre si sono tolti la divisa, ansia, paura e smarrimento hanno iniziato a tornare a galla.

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Nessuno dei vigili del Fuoco in servizio martedì sera aveva mai affrontato un’esperienza del genere, tanto che è già stato avviato un percorso con uno psicologo per elaborare il vissuto di quegli istanti che sembravano non finire mai. Un unico corpo durante le missioni, tante individualità quando finisce il turno, ma tutti accomunati da una chiamata, quella di esserci nel momento di estremo bisogno.

«Ognuno di noi sta condividendo quello che ha provato» racconta il pompiere di Mestre Giuseppe Sifanno, 48 anni. Quella sera era toccato a lui coordinare l’attività nel campo. Le immagini dei primi feriti che escono dall’autobus avvolti dal fumo, le persone schiacciate una sull’altra nel mezzo accartocciato e i tanti bambini non se ne andranno mai più. «È un pensiero fisso, ma bisogna trovare la forza di costruirci sopra».

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Signor Sifanno, ci può raccontare di quella sera?
«Faccio questo lavoro da 17 anni e non mi era mai trovato di fronte a qualcosa di simile. Quella sera ero coordinatore e quando è arrivata la richiesta di intervento abbiamo subito capito che sarebbe stata un’immensa tragedia. Già dalla voce dell’operatore che comunicava il ribaltamento di un autobus dal cavalcavia abbiamo sentito che stava succedendo qualcosa di inimmaginabile. La chiamata è arrivata intorno alle 19.45, quindici minuti prima della fine del turno. Si sono accese le sirene e le luci e siamo partiti più veloci che potevamo. In quei momenti non senti più nulla e sei concentrato al cento per cento su ogni azione».

Cosa doveva fare come coordinatore?
«Il responsabile deve coordinare le operazioni e la sinergia tra i vari enti, per prima cosa bisogna garantire che ci siano le condizioni per salvare i feriti, ma anche la sicurezza di chi sta operando in un contesto pericoloso e per questo abbiamo lasciato una via libera per le ambulanze. In tutto saremo stati una trentina, inclusi i colleghi di Mira. Quando siamo arrivati c’era già una squadra del soccorso sanitario. La prima cosa che abbiamo fatto è stata abbassare le fiamme e salvare le persone all’interno».

Che cos’avete visto quando siete arrivati?
«C’era già tanto fumo e molti bagliori. Abbiamo visto persone una sull’altra e tanti bambini, ma in quei momenti la concentrazione è al massimo. I primi feriti venivano fuori barcollando, gli altri erano ancora dentro. Ho visto poi i due operai africani che ci aiutavano senza protezioni e penso che siano stati davvero eroici. Le professionalità che operavano sono state tutte eccellenti. C’è stato un lavoro di squadra ottimo. Tutte le persone che respiravano le abbiamo estratte con l’obiettivo che respirassero ancora e speriamo che riescano a farcela. Ci siamo allenati per affrontare il peggio, ma poi quando succede non sai mai come andranno le cose e come reagisci dopo, quando ti fermi. Noi siamo rimasti fino alle 2, quando non c’era più nessuno. Siamo tornati a casa e il giorno dopo eravamo di nuovo in postazione. Non possiamo fermarci, ma bisogna elaborare e ci stanno aiutando».

Che percorso psicologico state facendo?
«Ci stanno aiutando a decomprimere le emozioni che abbiamo trattenuto in quelle ore. Al di là della professionalità di ognuno, ciascuno di noi poi si confronta con la propria vita privata e con il suo vissuto, con i pensieri di quei momenti e con quello che ti porti dentro. Ognuno ha una famiglia e dei cari e quando abbiamo saputo dell’autobus ognuno sapeva che poteva esserci qualcuno che conoscevamo all’interno, dai tuoi familiari ai tuoi figli. Quando abbiamo visto tanti bambini, tanti giovani, tante persone in quello stato non puoi inconsciamente non pensare anche alla tua vita. Ci siamo tutti aperti, i più giovani con qualche resistenza, mentre i più anziani hanno condiviso emozioni e pensieri profondi che hanno aiutato anche gli altri. Le persone che ci stanno aiutando sono anche quelle del 118 che ha la sede proprio qui a Mestre, nella nostra caserma. Sono persone che hanno una professionalità incredibile, una carica di umanità unica. Continueremo questo percorso che è stato apprezzato da tutti».

Se la sente di condividere alcune riflessioni che ha fatto in questi giorni?
«Sì, sono le mie personali, ma credo possano rispecchiare anche quelle di molti colleghi. Condivido un pensiero doloroso e uno che mi ha fatto riflettere sul nostro lavoro. Quello doloroso è stato un forte disagio che ho provato quando mi hanno chiesto quante persone c’erano. Per me ogni singola vita è preziosa e sacra e parlare di numeri mi ha creato un grande malessere, mi sono sentito che non stavo dando dignità completa a ognuno perché nessuno di quelle persone era un numero. Nello stesso tempo era necessario dire quante persone c’erano e infatti la parte professionale in quei momenti mette in pratica quanto hai imparato negli anni e l’allenamento psicologico e continuo di ogni giorno. Quando però ti fermi, devi fare i conti con quello che hai sentito. L’altra riflessione è stata che quando abbiamo capito che c’erano tanti ucraini non ho potuto non pensare alla guerra, al contesto da cui provenivano. Ho pensato in quel momento che ogni richiesta di aiuto è uguale, che magari ci sono persone che chiedono aiuto perché sono in un conflitto, altre perché cadono, come ci capita a volte con persone anziani, ma la richiesta di aiuto non ha misure e noi come soccorritori la percepiamo di uguale importanza. In questa tragedia senti quanto è sacra la vita e cerchi di fare il possibile».

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