Il veto Usa al cessate il fuoco per noi è stato peggio di una bomba. A Gaza rischiamo tutti di morire di fame

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RAFAH — Anche oggi sono vivo, fortunatamente, ma dentro mi sento rotto. Sono contrariato, triste, preoccupato. La notizia del veto al cessate il fuoco da parte degli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza Onu è arrivata anche qui. Per noi civili quella decisione presa in un palazzo, da potenti che vivono così lontani dal nostro dramma, ha soltanto un significato: morte. Al Sud come al Nord della Striscia, il mancato cessate il fuoco uccide le persone. E vi spiego perché.

Quello che vedo per le strade qui a Rafah mi paralizza: migliaia di persone arrabbiate che vagano in cerca di un pezzo di pane. Si spintonano, sgomitano intorno ai pochissimi camion di aiuti umanitari arrivati, combattono per la sopravvivenza come possono. Chi è sfollato spesso è andato via senza riuscire neanche a preparare una valigia e ieri mattina ho visto alcuni rifugiati nelle tende sulla spiaggia cercare materassi e lenzuola per coprire bambini che spesso sono malati con l’inverno che diventa più rigido e i virus che iniziano a circolare. Tagliano gli alberi per utilizzare la legna per scaldarsi e per fare spazio sul terreno per poter disporre nuove tende. Hanno fame, sono disperati. Chi abitava qui ora non può più lavorare e inizia a non avere più soldi e comunque, pur avendoli, non trova più cibo da comprare. Sapete cosa significa il mancato cessate il fuoco qui al Sud? Non poter tornare a casa – per chi la troverà ancora – o non poter ricevere aiuti umanitari in quantità sufficiente. Insomma, significa morire di fame. E al Nord è ancora peggio.

Lì la notizia del veto americano al cessate il fuoco è stata peggio di una bomba. Proprio poche ore prima del voto ero riuscito a parlare con alcune persone rimaste al Nord della Striscia in un rifugio allestito in una scuola. Li avevo sentiti sollevati, quasi allegri. Erano sicuri che il Consiglio di sicurezza avrebbe approvato l’interruzione e che finalmente avrebbero potuto mettere fine alla loro sofferenza. Chi come loro non è andato via è rimasto intrappolato: senza la possibilità di poter uscire, con bombe e carri armati fuori dalle porte e i cecchini pronti a sparare sopra a ogni palazzo. Mi riferiscono di lanci di granate e qualcuno parla addirittura di fosforo ma sono informazioni che da qui non sono in grado di poter verificare. Per loro la decisione presa dagli Stati Uniti è un fatto di vita o di morte, hanno sperato di poter sopravvivere alla guerra e invece ora tornano ad appendere la loro vita al tempo. Quello che passerà prima che vengano uccisi in un raid o catturati, spogliati e arrestati brutalmente per non aver seguito le indicazioni delle forze israeliane che sono particolarmente dure con chi non ha seguito le indicazioni di evacuare al Sud.

Intanto i combattimenti continuano sempre più violenti. A Est di Khan Yunis le forze israeliane sono impegnate in battaglie casa per casa, ovvero a partire dalle abitazioni che sono rimaste vuote dopo che i residenti le hanno lasciate e dalle quali i militari combattono. Anche a Gaza City il conflitto è ancora vivo, in particolare nel quartiere orientale di Shujaiya dove, da quello che mi riferiscono alcuni colleghi, l’esercito israeliano sta affrontando i miliziani della brigata dei martiri al-Aqsa di Fatah e quelli delle brigate Ezzedin al-Qassam di Hamas.

(testo raccolto da Benedetta Perilli)

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