Kurt Cobain, trent’anni dopo: quando un angelo cade. Il racconto di Ernesto Assante

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9 aprile 1994

Non si può morire a ventisette anni. Ma per Kurt Cobain, leader dei Nirvana, l’età non faceva certamente differenza: «Non mi interessa sapere quanti anni ho, se la vita che faccio non mi piace» , aveva dichiarato ai giornali inglesi poche settimane fa, durante il tour europeo. Ed è curioso pensare che per un giovane di ventisette anni, diventato una delle più grandi stelle del rock in breve tempo, la vita non fosse quella che lui voleva. Ma non conta se si è una rockstar, se il successo porta sulle prime pagine dei giornali: il malessere interiore di Cobain, il dolore e il dramma con il quale la sua vita si è bruscamente conclusa, lasciano poco spazio alla retorica sul rock “maledetto”, sulla vita di eccessi e di droga.

Kurt Cobain era una stella del grunge, musica dura ed immediata, nata a Seattle, punk della nuova generazione che si muoveva all’assalto del rock di consumo, musica di strada, violenta e suonata con violenza, per una nuova generazione. L’avventura dei Nirvana era iniziata alla fine degli anni Ottanta, con un singolo inciso per la più celebre delle etichette indipendenti di Seattle, la Sub Pop, seguito da un album, Bleach, che già conteneva tutti gli elementi del suono del gruppo. Accanto ai Nirvana c’era una intera legione di band, Tad, Mudhoney, Soundgarden, Pearl Jam, Alice in Chains, solo per citare i più famosi, e i club di Seattle erano gremiti ogni sera di un pubblico giovane e abbigliato in maniera originale, con i capelli rigorosamente lunghi e le grandi camicie a quadri.

Ce n’era abbastanza per scatenare una moda, e così fu, in un batter d’ occhio, con tanto di vestiti grunge per ogni tasca e decine di contratti multimilionari per ogni band legata al nuovo stile.I primi ad aver segnato la strada per il successo erano stati loro, i Nirvana, il trio di Cobain, Dave Grohl e Krist Novoselic, che con il loro primo album per una grande etichetta, la Geffen, avevano conquistato il primo posto nelle classifiche di vendita degli Stati Uniti, agli inizi del 1992. Poteva essere l’inizio di una carriera trionfale e invece il successo di Nevermind, album da cinque milioni di copie vendute, segnò l’inizio della fine. Kurt Cobain, riluttante supereroe del rock “alternativo”, andava alla deriva, percorrendo a tutta velocità la strada dell’eccesso, circondato dalla stampa di tutto il mondo in cerca di un nuovo Jimi Hendrix, di un nuovo Sid Vicious. Negli ultimi due anni la vita di Cobain è stata costantemente illuminata dai riflettori dell’informazione, la sua vita privata, il matrimonio con la rocker Courtney Love, la gravidanza di lei, le loro storie con la droga, l’acquisto di armi, le liti e le risse in casa, sono diventate oggetto di infiniti articoli, non solo sui quotidiani scandalistici o sulle riviste musicali, pronti a seguire Cobain nella sua folle corsa verso l’autodistruzione.

Lui e sua moglie avevano reagito all’interesse dei media prima con calma, poi con crescente nervosismo, chiudendosi sempre di più in un isolamento tutt’altro che dorato. Brad Morrell, autore di un bel libro sui Nirvana e la scena di Seattle, ha scritto: «Milioni di persone che non hanno mai ascoltato la loro musica ora conoscono i loro nomi e hanno già sussurrato il verdetto: tossici, emarginati, nient’altro che punk». La risposta era stata un nuovo disco il cui titolo originale era I Hate Myself and I Want to Die, “odio me stesso e voglio morire”, diventato poi In Utero,l’ultimo lavoro della band, ancora segnato da un grandissimo successo, ma meno esplosivo del precedente, un disco che risente della crisi sempre più profonda di Cobain, della sua incapacità di sopportare il peso della fama, la tensione del successo, l’ansia della creatività.

“È meglio bruciare che svanire pian piano”, recita una canzone di Neil Young, dedicata, non a caso al punk, alla parabola dei Sex Pistols, alla morte di Sid Vicious. Una storia troppo simile a quella di Cobain, una storia già vista, già scritta, persino in questo drammatico finale.

2 novembre 1994

Sono passati poco più di sei mesi dalla morte di Kurt Cobain e già la casa discografica pubblica un disco postumo, forse solo il primo di una serie che, come sempre accade in questi casi, diventerà probabilmente lunga. È Unplugged in New York, registrato un anno fa negli studi della Sony per la celebre serie dei concerti “senza elettricità” realizzati da MTV. Il disco è bellissimo, perché i Nirvana in versione acustica mettono in risalto l’unicità della scrittura di Cobain, il suo stile obliquamente melodico, la sua voglia di raccontare sentimenti e passioni con dei testi che spesso, nelle versioni elettriche e “ rumorose” della band, erano quasi inintelligibili e che in questo concerto si trasformano spesso in una confessione, amara, difficile e vera.

Chi non si era mai fermato ad ascoltare con attenzione quelle canzoni, quei testi, chi si era lasciato spaventare dalla implacabile muraglia sonora del gruppo, ha con questo album una imperdibile occasione per scoprire il senso, la forza emotiva, la verità profonda dei brani scritti da Cobain, la capacità del musicista americano di dar corpo ai suoi fantasmi in versi astrusi e passionali, inseriti in un contesto sonoro che in questa esibizione acustica procede nel senso inverso rispetto ai dischi ufficiali, limitando il rumore e dando straordinario spazio al suono.

Non sono canzoni di morte quelle dei Nirvana, e questo Unplugged lo dimostra ampiamente, ma una drammatica celebrazione della vita, magari sbilenca, imprecisa, imperfetta, ma proprio per questo capace di coinvolgere chi ascolta in una sorta di viaggio ai confini dell’anima. E il perché è racchiuso nella scatola magica di questo disco che, spogliando la band dal suo alone mitico e ribelle, esalta con grande semplicità non solo le doti musicali quanto la natura profonda delle canzoni di Cobain.Canzoni dolorose e amare nella maggior parte dei casi, ma anche ironiche, corrosive, sottilissime, addirittura raffinate, come nel caso di All Apologies, di Dumb, persino della consumatissima Come as You Are.

Sono quattordici i brani contenuti in questo disco, dodici dei quali comparivano anche nella versione televisiva del concerto, più due composizioni che non erano state incluse nello show, scelti da Cobain e dal gruppo in maniera originale, attraversando non solo la storia della band ma anche un singolare universo di riferimento, nel quale trovano spazio le cover di The Man Who Sold the World di David Bowie, la struggente e bellissima Where Did you Sleep Last Night di Lead Belly, e la meno nota, ma non meno interessante Jesus Doesn’t Want Me for a Sunbeam dei Vaselines, rilette senza frenesia dalla formazione americana.

Mancano alcuni dei brani più celebri della band, come Smells Like Teen Spirit, ma l’assenza, sicuramente voluta dal gruppo per sottolineare l’unicità della performance, la sua natura di scoperta e di dichiarazione d’intenti, non si fa sentire perché il disco raggiunge spesso vertici espressivi del tutto inattesi. Non c’è stato, non c’è, un gruppo capace di dar corpo a sogni e incubi degli anni Novanta come i Nirvana. Sogni e incubi che, alla luce della tragica fine di Cobain, possono essere letti come il frutto di una crisi personale dai contorni drammatici, ma che hanno assunto valore universale per milioni di persone che hanno ascoltato e amato la musica dei Nirvana.

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