La Cassazione: “Penalizzare il part- time quando si decidono gli aumenti di salario equivale a discriminare le donne lavoratrici”

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«L’anzianità di servizio non dipende dalle ore di lavoro svolte, quindi svalutare il part — time ai fini della progressione economica, significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini».

Sono lapidari, e decisamente chiari, i giudici di Cassazione nel fissare un paletto da oggi non più aggirabile in materia di uguaglianza di genere in ambito lavorativo.

La sentenza depositata il 19 febbraio dalla sezione lavoro, presidente Lucia Triani con giudice relatore Andreea Zuliani, chiude la lunghissima battaglia intrapresa da una dipendente dell’Agenzia delle entrate di Genova.

La donna, assistita dall’avvocato Alberto Biscaro, una decina di anni fa aveva presentato un ricorso al giudice civile accusando la sua amministrazione di averla discriminata, in una selezione interna per il passaggio ad una migliore fascia retributiva, preferendole un collega uomo. Le venne attribuito un punteggio ridotto in proporzione al minor numero di ore di lavoro svolte rispetto ai colleghi con pari anzianità, ma impiegati tempo pieno.

Il Tribunale del lavoro riconobbe, sulla base della documentazione e delle testimonianze, l’avvenuta discriminazione e condannò l’Agenzia delle entrate a versare alla signora 8400 euro a titolo di maggiori retribuzioni maturate. Sentenza confermata anche in Appello ma l’attesa era tutta per cosa avrebbe deciso la Cassazione. E la Suprema Corte oggi definisce certifica un concetto che sicuramente avrà ripercussioni in tutti gli ambienti di lavoro, sia nel pubblico che nel privato. Per i giudici romani «non può esserci alcun automatismo tra riduzione dell’orario di lavoro e riduzione dell’anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche. Occorre invece verificare se tipo di mansioni svolte, modalità di svolgimento, etc., il rapporto proporzionale tra anzianità riconosciuta e ore di presenza al lavoro abbia un fondamento razionale oppure non rappresenti, piuttosto, una discriminazione in danno del lavoratore a tempo parziale».

Insomma «non è detto che, a parità di anzianità lavorativa. il lavoratore full-time abbia acquisito maggiore esperienza del lavoratore part-time».

Nel suo ricorso l’Agenzia delle Entrate contestava l’accusa di essere responsabile di discriminazione indiretta, ovvero di aver stabilito un principio o una regola che in apparenza è neutra ma nel concreto penalizza i lavoratori di un determinato sesso.

La Cassazione quindi evidenzia come nella storia dell’impiegata genovese la Corte d’Appello che le aveva dato ragione fosse ricorsa «al dato statistico documentato della presenza di donne in stragrande maggioranza tra i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate che chiedono di usufruire del part-time, per concludere che svalutare il part-time ai fini delle progressioni economiche orizzontali (ovverosia progressioni economiche non legate ad avanzamenti di carriera, ma comunque meritate, secondo parametri che includono anche l’anzianità di servizio) significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini con riguardo a tali miglioramenti di trattamento economico».

E infine: «La preponderante presenza di donne nella scelta per il lavoro a tempo parziale è da collegare al notorio dato sociale del tuttora prevalente loro impegno in ambito familiare e assistenziale, sicché la discriminazione nella progressione economica dei lavoratori part-time andrebbe a penalizzare indirettamente proprio quelle donne che già subiscono un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro».

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