L’impoverimento e la voce delle piazze

Pubblicità
Pubblicità

Sabato scorso, parlando alla convention del Pd a Roma, Romano Prodi ha ricordato il peggioramento delle condizioni economiche e sociali del Paese e ha detto che “da una decina d’anni si è capito che questo livello di iniquità è intollerabile, ma non si è ancora tradotto in politica”. È vero che non si è ancora tradotto nella politica dei partiti, ma negli ultimi mesi i bassi salari, la precarietà, le diseguaglianze, le discriminazioni di genere sono stati al centro di molte proteste che hanno riempito le piazze italiane.

Ricordiamole: il 7 ottobre “La via maestra” della difesa della Costituzione, con Cgil e 200 associazioni, per la democrazia e la pace, contro presidenzialismo e autonomia regionale differenziata; il 28 ottobre a Roma e il 10 dicembre ad Assisi le richieste di cessate il fuoco tra Israele e Palestina; il 17 novembre lo sciopero generale di Cgil e Uil contro la legge di bilancio e l’impoverimento del lavoro, con varie manifestazioni successive; il 25 novembre la grandissima piazza delle donne contro violenza e patriarcato. E in occasione della Cop28 sui cambiamenti climatici, gli ambientalisti hanno continuato a chiedere l’uscita dalle energie fossili e cambiamenti radicali nei processi produttivi e nei consumi.

È difficile non vedere in queste mobilitazioni un riflesso del peggioramento delle condizioni del Paese, aggravato dalle politiche del governo di Giorgia Meloni; la cancellazione del reddito di cittadinanza e del decreto dignità, l’opposizione al salario minimo legale, una seconda legge di bilancio che favorisce i privilegiati, taglia i fondi a sanità e welfare mentre aumenta spese militari e fondi per il Ponte sullo Stretto, facendo felici le agenzie di rating. Mentre si estende la “flat tax” ai lavoratori autonomi, sull’Irpef c’è l’accorpamento dei primi due scaglioni di reddito con l’aliquota al 23%, che porta un vantaggio di soli 20 euro mensili ai lavoratori, con un costo di 4 miliardi. Il taglio del cuneo fiscale (quasi 15 miliardi) distribuisce poche decine di euro ai salariati, facilita le imprese e dovrà essere rifinanziato con fatica l’anno prossimo. Una “politica delle mance” che è del tutto indaguata di fronte all’impoverimento delle classi medie e popolari del Paese.

Vediamo i dati. Dopo il grande rimbalzo del Pil, tra il 2021 e il 2022, pari a circa l’11%, realizzato grazie alle politiche espansive e di sostegno alla domanda, la crescita è tornata allo “zero virgola”: 0,6%-0,7% nel 2023 e nel 2024. I dati positivi sugli occupati nascondono impieghi precari, con poche ore lavorate e salari molto bassi. Proprio i salari sono stati i più colpiti dall’inflazione — all’8,7% nel 2022, al 5,7% nel 2023 — che ha eroso in due anni del 15% del potere d’acquisto di moltissimi lavoratori dipendenti e pensionati. Un calo che giunge dopo 30 anni in cui i salari reali medi degli italiani, tra il 1990 e il 2020 sono diminuiti del 2,9%, caso unico in Europa. Il lavoro povero è stimato al 13%, mentre le famiglie a rischio di povertà sono il 22%. Le diseguaglianze di reddito sono cresciute per effetto della pandemia e dei rincari dei prezzi, e la cancellazione del reddito di cittadinanza ha rimosso la misura principale che aveva rallentato lo scivolamento verso il basso dei più poveri.

E poi ci sono le discriminazioni contro le donne. Secondo il rapporto Inps 2022, in Italia nel settore privato le donne guadagnano tra il 16 e il 25% in meno degli uomini. Sono attive soprattutto in settori a bassi salari, con contratti più precari. Chi diventa madre ha una probabilità quasi doppia di non avere più un lavoro nei due anni successivi, e gli asili sono disponibili solo per un bambino su quattro.

Le donne pensionate hanno in media una pensione del 25% inferiore agli uomini. Una lista di disparità che potrebbe continuare a lungo.

L’urgenza del sapere

Chi volesse ascoltare le rivendicazioni delle piazze di questi mesi, troverebbe le voci dell’impoverimento del paese, la denuncia di politiche sbagliate e molte proposte concrete; un dibattito su questi nodi si è aperto sul sito di Sbilanciamoci, il cartello di 50 associazioni che chiedono politiche diverse. Le misure alternative che potrebbero dare qualche prima risposta al disagio del Paese sono, dopotutto, ben note. La caduta dei salari reali dovuta all’inflazione si potrebbe affrontare con il rinnovo puntuale dei contratti di lavoro, che sono scaduti nel 70% dei casi. Un salario minimo indicizzato ai prezzi tutelerebbe i redditi più bassi. Ridurre la precarietà e il numero dei contratti di lavoro tutelerebbe soprattutto le donne e i giovani. Rifinanziare la sanità, gli asili, la scuola, i trasporti pubblici, la casa offrirebbe servizi pubblici essenziali, più importanti di qualche sussidio monetario.

A ben vedere, le piazze hanno ricominciato a essere frequentate anche dai partiti. Contro l’abolizione del Reddito di cittadinanza e del decreto dignità, il 17 giugno 2023 c’era stata la manifestazione “Basta vite precarie” promossa dal M5S. E contro la la legge di bilancio e “per una Italia più giusta” il Pd ha riempito Piazza del Popolo a Roma l’11 novembre scorso. E perfino in Parlamento qualcosa è successo: nel luglio scorso i partiti d’opposizione (M5S, Pd, Avs, Azione) hanno presentato una proposta comune per un salario minimo legale a 9 euro lordi l’ora, poi bloccata dal governo Meloni, in una partita che non si ancora chiusa.

Se si parte dalle vite delle persone, dalle mobilitazioni che sono già in corso, le condizioni per larghe convergenze sociali — e per una diversa maggioranza nel Paese — potrebbero essere meno lontane di quanto si possa vedere dai palazzi della politica.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *