L’ultima notte con le mie gemelle. Che finalmente sono uscite da Gaza

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RAFAH Proprio quanto stavamo per perdere ogni speranza, la notizia che aspettavamo da ormai 22 giorni è arrivata. Ruba e Bisan, le mie figlie gemelle di 18 anni, hanno ottenuto il permesso di lasciare Gaza. E in men che non si dica, ieri mattina sono partite. Lasciandomi col cuore infranto, ma felice. Lo confesso, ho paura per loro: è la prima volta che lasciano la Striscia e per di più lo fanno da sole. Non so quando – e nemmeno se – le rivedrò. Ma so che ad accoglierle al Cairo c’è mio cugino. Finalmente torneranno a mangiare pasti decenti. Potranno fare la doccia calda. Ricominceranno una vita che qui è ormai impossibile.

Da quando le ho lasciate sono attaccato al telefono. Ne seguo ogni passo, ogni timbro sui documenti. E per fortuna hanno incontrato tra la folla degli sfollati in partenza, un mio amico. Mi ha subito scritto, le ha prese sotto la sua protezione e non potevo sperare di meglio. È successo tutto molto in fretta e c’è mancato poco che per la stanchezza di questi ultimi giorni non mancassimo l’appuntamento cruciale. Avevamo pagato l’agenzia Hala – che per l’astronomica cifra di 5mila dollari a persona garantisce il visto e l’uscita di Gaza – già lo scorso 20 febbraio, dopo aver raccolto i soldi necessari con una colletta che ha coinvolto tanti amici, in Italia e in Olanda a cui va la mia riconoscenza. Solitamente ci volevano 5 giorni per sbrigare le pratiche. Ma l’aumento vertiginoso di richieste ha rallentato tutto. Per tre settimane li ho chiamati tutti i giorni e ogni giorno mi rispondevano, domani, al massimo dopodomani.

Non lo dicevo alle ragazze ma ormai non ci credevo quasi più, tanto che per una sola notte, temendo l’imminente invasione da terra di Rafah, le ho portate a dormire nella tendopoli che con altri amici abbiamo eretto a ovest di Khan Yunis. Mi sono però presto reso conto che restare lì voleva dire rischiare di perdere la chance di far uscire le ragazze. In quell’area non c’è campo, nessuna possibilità di controllare la lista online. E restare isolati in un momento così non era proprio possibile. Così, mi sono assunto il rischio di riportarle a Rafah, pronto a tornare indietro al primo movimento di guerra.

La lista coi nomi degli autorizzati a partire viene pubblicata tutte le sere alle dieci. Ma ieri ha tardato. Dopo tante delusioni nessuno di noi si è preso la briga di aspettare oltre. Sfiniti, siamo andati a dormire. Intorno a mezzanotte, però, sono stato svegliato dal bip di alcuni messaggi. Ero così stanco che all’inizio non volevo aprire gli occhi. Ma i messaggi continuavano ad arrivare. Finalmente li ho letti: e ci ho messo qualche minuto a realizzare. Erano amici e parenti che avevano visto la lista online – ormai è il bollettino più letto di Gaza – e si congratulavano per l’imminente partenza delle ragazze con messaggi di buona fortuna. A quel punto, anche se era il cuore della notte, le ho svegliate. E non abbiamo più dormito un solo istante.

Tutto era pronto, eppure ci sembrava mancasse sempre qualcosa. Abbiamo disfatto e rifatto le valige due volte. Abbiamo controllato che avessero tutti i documenti. Gli indirizzi, i numeri di telefono, il computer, i caricabatterie. Abbiamo iniziato a telefonare – sì, a quell’ora – alle persone da salutare. Hanno detto addio alla nonna che chissà se rivedranno. Alla mamma da cui sono separato, rifugiata a Khan Yunis. Ai cugini cui sono legatissime, rimasti a Nord. All’alba non hanno voluto sentir ragioni: sono corse ad abbracciare le loro migliori amiche, svegliandone le intere famiglie.

Abbiamo fatto l’ultima colazione insieme: pane e thé senza zucchero, sparito dal mercato da tempo. Avevamo lo stomaco chiuso ma le ho costrette a mandar giù diversi bocconi. Sapevo che avevano una lunga giornata davanti e non potevano farlo a digiuno. Ci siamo presentati al cancello del confine alle 8.30, sapendo che avrebbero aperto i cancelli alle nove. E stavo per morire di crepacuore quando ho scoperto che a causa della troppa gente avevano aperto alle 8 e dunque non eravamo in anticipo, ma già in ritardo. Per fortuna la fila si muoveva lentamente. Solo per passare il confine palestinese ci hanno messo più di tre ore. E altrettante per uscire dal lato egiziano dove i loro documenti sono stati controllati minuziosamente. Anche perché i loro passaporti, come quelli di molti altri qui, erano scaduti. Li abbiamo dovuti far rinnovare a Ramallah per procura. Da lì sono stati spediti in Egitto, perché ovviamente non c’era modo di farselo recapitare quaggiù. Per fortuna le autorità lo sanno bene, è diventata una sorta di prassi, anche questa molto dispendiosa. Un agente dell’agenzia Hala li porta al confine, andando incontro a chi ne è privo. Lo chiamano trattamento “Vip”. E ci mancherebbe, con quello che costa.

Ho saputo che erano finalmente in territorio egiziano alle quattro di pomeriggio passate. Ad aspettarle un pulmino dove hanno trovato acqua e cibo – a chi viaggia, durante il Ramadan è permesso mangiare – sul quale hanno affrontato il viaggio attraverso il Sinai lungo sei ore. Mi hanno chiamato un’ultima volta, la voce tremante dall’emozione prima di salire a bordo. Sfinite, sul bus, si sono addormentate e lo stesso ho fatto io nel pomeriggio: un lungo sonno agitato. Un viaggio diretto, salvo qualche fisiologica fermata, insieme ad altre trenta persone. Tutte guardate a vista dagli uomini dell’agenzia, armati perché certi villaggi che attraversavano sono pericolosi.

So già che mercoledì mio cugino le lascerà riposare. Torneranno a dormire in un letto dopo cinque mesi. Indosseranno abiti puliti. Hanno già il visto per entrare in Olanda, dove una collega e amica sta approntando per loro una nuova vita e un percorso di studi. Non so ancora quando partiranno. Io sono stordito. Euforico e disperato insieme. Non riesco a concentrarmi su nulla e mando loro messaggi continui da vero padre ansioso. Ora tornerò a concentrarmi sul mio lavoro e sul dramma della mia gente a Gaza. Ho potuto mettere le mie figlie in salvo grazie all’aiuto di tanti amici. Ma soffro sapendo che nessuno riuscirà a salvare tante altre ragazze e ragazzi e bambini come loro.

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