‘Meredith’, la serie podcast che ricostruisce il delitto di Perugia 15 anni dopo

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Una ragazza inglese, Meredith Kercher, uccisa in una villetta di Perugia; sette anni di processi, cinque gradi di giudizio, sentenze continuamente ribaltate e infine l’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito con motivazioni che sembrano però contraddire la decisione finale: tutto fa pensare, dicono i giudici, che Amanda fosse nella casa di via della Pergola, nell’ora in cui è stata uccisa Meredith Kercher, ed è probabile che ci fosse anche Raffaele, ma le prove non sono sufficienti.

A scontare l’unica condanna, alla fine, è stato Rudy Guede, oggi in libertà, il solo ad avere ammesso di trovarsi in quella casa, sebbene abbia sempre negato di avere preso parte all’omicidio. “Nonostante l’assoluzione – dice Sollecito a quindici anni dalla fine della vicenda – le motivazioni della Cassazione mi hanno lasciato molta amarezza in bocca. Hanno voluto dare una chance agli investigatori. Ma io ero a casa mia e di fatto c’era anche Amanda”.

Di diverso avviso, invece, il pm Giuliano Mignini, titolare della prima fase dell’inchiesta insieme a Manuela Comodi: “Sono stato sempre convinto che Amanda fosse presente lì e avesse assistito al delitto. Poi col tempo mi sono fatto l’idea di una partecipazione più diretta”.

Disponibile a partire dal 26 ottobre, il podcast Meredith – Il delitto di Perugia ricostruisce, insieme ai protagonisti della vicenda, giornalisti, genetisti e attraverso numerosi audio d’archivio, tutta la storia del delitto avvenuto il primo novembre 2007, dalla scoperta del cadavere di Meredith fino alla sentenza della Cassazione, mettendo in evidenza discordanze, bugie, errori.

Si contraddice Rudy Guede, nelle sue diverse deposizioni, si contraddice Amanda, si contraddice Raffaele: prima sostiene che Amanda era rimasta a casa con lei, poi cambia versione sostenendo che era uscita di casa ed era tornata all’una e mezzo di notte, e smonta quindi il suo alibi.

“A quell’ora il delitto era già stato commesso – dice Mignini – quella per noi rappresentò una chiara accusa nei confronti di Amanda”. Sollecito racconta, tuttavia, di avere semplicemente fatto confusione coi piani temporali: “Mi venivano a chiedere cose che riguardavano i giorni precedenti e quelli successivi, è normale che mi confonda e dica che non lo so se Amanda c’era o non c’era”.

E poi le prove genetiche: il coltello trovato in casa di Sollecito, con tracce di Meredith sulla lama e di Amanda sull’impugnatura, e il gancetto del reggiseno della ragazza inglese, su cui fu trovato Dna di Raffaele. Prove che in un primo tempo avevano portato alla condanna dei due ragazzi, ma in seguito verranno invalidate facendo crollare le accuse. Sul coltello “c’era un Dna talmente a bassa concentrazione – conviene la genetista Marina Baldi – che non poteva essere considerato utilizzabile. Il gancetto, invece, dato che è stato repertato solo dopo 46 giorni, potrebbe essersi contaminato”.

Quello per il delitto di Perugia è insomma un percorso processuale dove nulla è ciò che sembra e dove, paradossalmente, alcune prove verranno portate a sostegno delle tesi sia della difesa che dell’accusa.

È il caso del senzatetto Antonio Curatolo, che sostiene di aver visto Raffaele e Amanda in piazza Grimana, quindi fuori di casa di Sollecito, all’ora del delitto, ma sostenendo di averli sempre visti in piazza regala loro un alibi.

Ma è anche una vicenda dove la stampa e gli Stati Uniti, con Trump come capofila, non ancora presidente, hanno giocato un ruolo. “È stata creata questa narrativa – racconta Mignini – Amanda è l’americana pura, la brava ragazza acqua e sapone, vittima della perversa Europa e di un inquirente medievale, che poi sarei io”.

Ma, più delle pressioni esterne, al centro di questa storia sono le prove controverse e le contraddizioni mai chiarite: dopo quindici anni, e nonostante una sentenza definitiva, tante cose nelle ricostruzioni ufficiali ancora non tornano.

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