Milano, ginecologa Kustermann su Diana, morta di stenti a 18 mesi: “Alessia Pifferi aveva un’impermeabilità emotiva”

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“E’ tremendo e colpisce tutti noi quello che è successo” alla piccola Diana, morta a 18 mesi dopo essere stata lasciata sola in casa dalla sua mamma Alessia Pifferi per 6 giorni. “Dà l’idea del fatto che forse dobbiamo rivedere completamente il modo in cui viviamo il rapporto con gli altri. Sembra impossibile immaginarsi di vivere in un quartiere che non riconosce anche vagamente i segnali d’allarme. Allora vale la pena di riflettere su questo e di ricordarci che le sentinelle sul territorio siamo tutti noi. Tentare di risvegliare le coscienze sociali è utile”. Parte da qui la riflessione di Alessandra Kustermann. A Milano il suo nome richiama alla mente la difesa dei diritti delle donne. Anima del Servizio di soccorso violenza sessuale e domestica (Svsed) del Policlinico di Milano per anni, l’esperta spiega la complessità di raggiungere e intercettare queste situazioni problematiche.

 

“Nessuno ha capito e chiesto aiuto per lei”

“Probabilmente – evidenzia – questa donna aveva un’impermeabilità emotiva per cui nessuno ha capito e chiesto aiuto per lei. E lei non ha nemmeno dato la possibilità di farselo dare questo aiuto. Di strutture e di attività per tentare di prevenire questo tipo di eventi ce n’è tantissime. Ma una cosa che ho imparato in tutti questi anni è che se una persona non si vuole fare aiutare, purtroppo non chiede aiuto. Noi pensiamo sempre che ci sia una richiesta d’aiuto e dall’altra parte una mancanza dello Stato che l’aiuto non lo dà. In realtà non è così semplice: spesso manca la richiesta d’aiuto e, tanto più la persona ne è bisognosa, tanto meno è capace di usufruire dei servizi. Questo lo dico perché è una vita che rincorro i mulini a vento, l’illusione del riuscire ad arrivare dappertutto”.

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“Troppo facile incolpare lo Stato”

Sarebbe facile, osserva Kustermann “incolpare lo Stato, ma ci dimentichiamo che essere cittadini vuol dire occuparsi della città, della cosa pubblica, delle persone che ci stanno accanto, essere comunità è quello che conta di più nella vita e nessuno può mai sostituirsi al senso di comunità, alla solidarietà che deve esistere tra gli esseri umani”. Sul caso della piccola Diana e della madre Alessia Pifferi, 37 anni, “ci sono ancora troppe domande senza risposta. Questa donna non ha mai mostrato disagio in precedenza? In che casa viveva? La piccola frequentava l’asilo? Chi era il medico della bimba, non ha mai notato niente di strano?”, si chiede la ginecologa, che assicura: “L’Italia ha un servizio che funziona intorno alla maternità e all’infanzia, in media c’è un’estrema attenzione. Se una donna viene seguita in un consultorio o comunque in una struttura pubblica e vede sempre le stesse persone nei consultori, è chiaro che una situazione di disagio emerge”.

“In quale solitudine mentale viveva? Immensa”

Probabilmente però, riflette Kustermann, “questa donna che secondo le prime informazioni emerse avrebbe anche scoperto tardi di essere incinta, probabilmente non si è nemmeno fatta seguire in gravidanza, quindi diventa tutto molto difficile se i servizi non li allerti. In quale solitudine mentale viveva? Immensa – si rammarica l’esperta – In Mangiagalli a Milano, ma anche negli altri ospedali dove si partorisce, si studia con attenzione la prima relazione mamma-bambino, come insorge l’allattamento, com’è l’accudimento, ma la depressione post partum in genere inizia qualche giorno dopo la dimissione dall’ospedale. Se una donna è sola, nessuno se ne accorge. Ci deve essere purtroppo una famiglia intorno che mette in allerta i medici e gli psicologi, ma le situazioni di solitudine e degrado sociale totale sono le più difficili da intercettare”.

Come funziona la rete di supporto alle neo-mamme, come si identificano eventuali situazioni di disagio? “Noi – spiega Kustermann – stiamo facendo da almeno 3 anni nei consultori in Lombardia, e in particolare a Milano, l’individuazione dei fattori di rischio per la depressione post partum. Iniziamo questa valutazione già in gravidanza. E le persone che risultano a rischio vengono immediatamente prese in carico. Anche il fatto di essersi accorti tardi di una gravidanza porta a segnalare quel caso come un caso a rischio. Quindi in realtà è impossibile che, se questa donna fosse stata seguita in un consultorio, questo elemento non abbia fatto scattare un alert. Per noi diventa una sorta di ‘codice giallo’, per dare l’idea”.

“E’ doloroso pensare alla piccola Diana. Il suo pianto non è stato sentito? Probabilmente – ipotizza l’esperta – la bambina non piangeva, era talmente in disagio psicologico che non piangeva nemmeno più, come spesso fanno i bambini molto maltrattati. E qui c’è evidentemente un maltrattamento psicologico importante”. A volte, riflette, “non pensiamo a quante fragilità esistano. Considerato quanto volontariato esiste in Italia, se qualcuno fosse stato allertato, sarebbero intervenuti. Io spesso mi rivolgo al volontariato cattolico per aiutare le mie donne più fragili. E credo che sia il volontariato che può funzionare, non lo Stato in questi casi. Questa mamma forse aveva bisogno di una persona amica che la aiutasse a tirar fuori i suoi problemi. E invece non ha avuto nessuno intorno a lei”.

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