Nell’Iran senza veli, la sfida delle donne a capo scoperto

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TEHERAN – È stata come una scossa elettrica, una vertigine. «Ero per strada, senza velo, una signora mi è passata accanto, mi ha guardata e mi ha detto: “Grande! Brava!”. Era eccitata più di me. In quel momento qualcosa è cambiato. Il “Movimento” ci ha fatto conoscere l’una con l’altra, diventare una comunità. Ci ha dato potere». Sono passati due anni dalla scossa che ha attraversato l’Iran: la morte di Mahsa Amini, le grandi proteste contro il velo obbligatorio e per i diritti, la repressione, la disobbedienza civile. Donna, Vita, libertà. O come adesso lo chiamano tutti qui, semplicemente: Il Movimento. Una parola entrata nel lessico comune. L’Iran che sta cambiando.

Quei giorni di protesta Najme li ha vissuti lontano dalle piazze, «non sono tipo da manifestazioni, dipingo». Ma dentro le si è ribaltato tutto. «Ho 38 anni, e 25 li avevo passati a litigare con mio padre, religioso, e i suoi dogmi. Dopo Mahsa ho capito che il problema ero io: non avevo coscienza di me. Il Movimento mi ha dato una forza nuova. E ora non ho paura di uscire senza velo. Ma non è una rivoluzione, attenti: quelle sappiamo come finiscono: con la violenza. È una trasformazione, lenta. And it’s going on». È la nuova normalità senza velo per moltissime donne a Teheran, le vedi con i capelli scoperti in metro e nelle piazze, capannelli in mezzo ad altre velate, nel Nord ricco come nel Sud popolare, universitarie e madri di famiglia, laiche in gran parte ma pure conservatrici, moderate a cui l’imposizione non è proprio andata giù. Fatemeh, 64 anni, maestra in pensione, è avvolta nel suo chador nero. Anche lei ammette: «Le ragazze che non lo indossano si perdono qualcosa, ma non vanno punite».

Reza racconta le nuove diatribe con la moglie, la loro è da sempre una famiglia pia: «Ha smesso di indossare il velo dopo quello che è successo, arrabbiata per la repressione, e così anche mia figlia 15enne», dice e scuote il capo: vorrebbe evitare guai. «Per strada devo tenerla a bada, altrimenti comincia a litigare se le dicono qualcosa». La temuta polizia morale, la Gersh Ershad, non si vede più in giro. Hanno cambiato nome, dice qualcuno. Lo fanno solo perché si vota, ma poi torneranno, speculano altri. Resta il fatto che i fermi delle donne senza velo, soprattutto quelli eseguiti con durezza, sono diminuiti. «La polizia non dice nulla», racconta Myriam, 24 anni, svelata e sorridente alla fermata della metro Dowlat Abad, sud di Teheran, zona conservatrice. «Magari sono i conservatori a dirti qualcosa, ma adesso intervengono le altre persone a difenderti». Le telecamere, quelle invece sono dappertutto. «Hanno capito che eravamo troppe, tante, e non potevano arrestarci tutte. Ora si sfogano facendoci le multe».

Sepinud aspetta il bus a piazza Vanak, nel Nord, l’agorà delle grandi occasioni mancate. Qui nel 2015 i moderati festeggiavano la firma dell’accordo sul nucleare e la promessa di un rapporto nuovo con l’Occidente. Trump stracciò quel sogno. I moderati di Rohani sono caduti in disgrazia. E con l’ultraconservatore Raisi l’Iran è andato altrove, a Est, verso la Russia e la Cina, stringendo le maglie delle libertà sociali. Venerdì si vota per le elezioni parlamentari, con una crisi economica i cui effetti il governo è riuscito ad attutire solo in parte e a due anni dall’esplosione del Movimento che ha messo anche i conservatori di fronte a un realtà ineludibile, al punto che oggi il conservatore Haddad Adel dice che pure le donne senza velo possono votare.

Epa

«Io non ci andrò. Per Mahsa e per tutte le altre ragazze vittime della repressione», rivendica Sepinud, 39 anni, mentre comincia a nevicare. Chi è sceso in piazza, e chi ha tifato da casa per la battaglia delle donne, diserterà le urne. “Greve du vote”, sciopero del voto, c’è scritto sul muro di un caffè alla moda nei pressi di Enghelab, via della Rivoluzione. Anche la premio Nobel Narges Mohammadi dal carcere ha invitato a boicottare i seggi. Lo faranno molti riformisti delusi. Le autorità in apparenza sembrano preoccuparsene, gli appelli a difendere “la democrazia” si moltiplicano tra i conservatori preoccupati che si scenda sotto il 40% delle precedenti legislative, già il dato più basso nella storia della Repubblica Islamica. Eppure molti candidati riformisti sono stati esclusi dalla corsa, quasi che al Sistema non dispiaccia un parlamento monocolore. Persino all’ex presidente moderato Rohani non è stato consentito di correre per l’altra elezione, davvero cruciale, di questo venerdì: quella per il Consiglio degli Esperti, l’organo che nomina la Guida Suprema. Ancora aspetta le motivazioni.

«103 riformisti candidati in tutto l’Iran», titola indignato il giornale riformista Ham Mihan, quello di Elahé Mohammadi, la reporter che insieme a Niloufar Hamedi per prima ha raccontato la storia di Mahsa Amini: arrestata, accusata di intelligenza col nemico, rilasciata dopo oltre un anno di prigione su cauzione, Mohammadi non è ancora stata scagionata. «Sta bene, e ci auguriamo che presto tornerà a lavorare», ci dice il direttore responsabile di Ham Mihan, Gholamhossein Karbaschi, ex sindaco riformista di Teheran, quando ci accoglie nella piccola redazione a nord della capitale. Sono tutti giovani, la maggior parte donne. In 400 giorni Ham Mihan ha avuto «200 denunce», «sono andato in tribunale per 20 processi. 17 sono state assoluzioni, uno è finito con una multa di 140 euro e due cause sono ancora pendenti». Più che una redazione, un fortino. «Il Movimento ha cambiato molte cose», secondo Karbaschi. «Ha fatto venir fuori il potenziale di una generazione che vuole prendersi le sue responsabilità. Donne colte, determinate, che ambiscono a diventare capi, dirigenti, direttori. È il loro momento». Ma sbaglia chi pensa di poterci arrivare biocottando il voto, avverte: «In Parlamento dobbiamo esserci, far sentire la nostra voce, correggere gli errori ovunque possiamo».

I rifomisti però sono divisi, storditi. I vecchi leader, quelli del 2009, Karroubi e Mousavi, stanno ancora ai domiciliari. I “nuovi” non ci sono o sono accusati di aver tradito la promessa delle riforme. E di non aver fatto nulla in difesa dei ragazzi e delle ragazze nei giorni delle proteste. Mohammad Ali Abtahi si sente chiamato in causa. Tra i padri nobili del riformismo iraniano, braccio destro di Khatami, ne è stato il vice durante la grande stagione delle riforme, anni Novanta. «Capisco la delusione, è fondata, e ce ne assumiamo la responsabilità. Abbiamo fatto errori, come quando ci dividemmo contro Ahmadinejad. Ma ci sono due vie: o la violenza e la guerra civile, che abbiamo visto in tanti Paesi intorno a noi, o le riforme. Noi abbiamo scelto la seconda strada e la difendiamo». La speranza è in questa «nuova generazione connessa con il mondo, che sta cambiando le cose. Il potere non la capisce, non ci parla, la distanza è sempre più ampia».

Cos’è allora questa trasformazione? In Iran «i satelliti sono proibiti, il velo è obbligatorio, molti generi musicali sono vietati, Instagram, Telegram sono bannati». Però, nei fatti, «la gente sta sui social, non porta il velo, usa l’antenna satellitare. Il riformismo è un pensiero. E lo stanno realizzando, anche senza i riformisti al potere».

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