Omicidio di Giulia Cecchettin, dietro Elena ci siamo tutte

Pubblicità
Pubblicità

Basta! Ormai lo stiamo dicendo e ripetendo quasi tutte, è davvero arrivato il momento di fare una rivoluzione culturale, e di smontare definitivamente gli stereotipi di genere e la cultura dello stupro — sì, soprattutto quella, anche se c’è ancora chi ironizza quando se ne parla, guardando noi donne dall’alto in basso e: in che senso cultura?

E giù con lo spiegone in modalità maschio-alfa-bianco-etero: che ne sai, tu, di come certe donne umiliano gli uomini, sbattendo loro in faccia quell’autonomia o quei successi appena raggiunti, oppure abbandonandoli a sé stessi dopo aver promesso loro amore eterno?

Mansplaining inascoltabili che inanellano colpevolizzazione, vergogna, e tutto l’armamentario della vittimizzazione secondaria: attente al lupo, ve la siete cercata, prima provocate e poi?

Basta! Sono tantissime le donne e le ragazze che lo stanno ribadendo in questi giorni, in queste ore, dopo l’ennesimo femminicidio, che non è solo ennesimo, un numero dopo l’altro, una delle (troppe) donne che muoiono ammazzate ogni 72 ore, ma è l’assassinio di Giulia Cecchettin da parte del suo ex, Filippo Turetta — pronunciamo chiaramente entrambi i nomi ed entrambi i cognomi, basta numeri, basta statistiche, basta persino le lacrime e i minuti di silenzio, l’ha detto pure Elena, la sorella di Giulia, coraggiosissima e forte, che sta guidando in queste ore la rivolta: «Non fate un minuto di silenzio per Giulia, ma bruciate tutto e dico questo in senso ideale, per far sì che il caso di Giulia sia finalmente l’ultimo, ora serve una sorta di rivoluzione culturale».

Giulia Cecchettin e il sottile confine tra controllo e sopraffazione

Post, video, appelli, manifestazioni, hashtag: le donne si stanno muovendo quasi tutte sui social, sui giornali, in tv o in piazza; attrici, scrittrici, insegnanti, madri, chiunque cita Elena, nuova paladina di una battaglia che, però, tante donne e tante ragazze combattono da anni, e allora prima c’è stato il #senonoraquando poi il #metoo poi il #nonunadimeno poi il #yesallwomen, e ogni volta si è provato a dire che le più giovani e i più giovani vanno non tanto e non solo educati alla sessualità, ma anche e soprattutto aiutati a riscrivere la grammatica delle relazioni affettive.

Io lo faccio da tempo, e quando ho scritto Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa volevo, tra le altre cose, dare in mano ai genitori e agli insegnanti proprio uno strumento per affrontare l’abc dell’affettività, scardinare parola per parola la cultura dello stupro, mostrare il continuum che esiste tra catcalling e femminicidio passando per le molestie e gli stupri. Ma. Forse. Era. Ancora. Troppo. Presto.

E nelle ultime settimane non c’è stato giorno in cui un responsabile politico o un giornalista non abbia utilizzato male le parole — e quando le parole vengono utilizzate male, si aumentano il disordine e la sofferenza che già esistono, come quando si lascia trapelare l’idea che una ragazza se la sia cercata oppure che i cattivi siano i lupi oppure che la violenza imperversi solo nei quartieri abbandonati dallo Stato.

Ma ora che Elena ha detto basta e che le altre donne la stanno seguendo, ora, forse, è il momento giusto, checché ne dica un responsabile politico come Salvini, che pensa che la soluzione sia sempre e solo quella di sbattere in prigione i colpevoli; checché ne sproloqui persino un intellettuale come Marcello Veneziani, che non capisce che il patriarcato, con i femminicidi, c’entra, e che la fragilità adolescente di cui parla è proprio il frutto di un sistema all’interno del quale le asimmetrie di potere generano abusi e frustrazioni.

Noi donne ci siamo: siamo pronte a decostruire la cultura dello stupro e a ricostruire le relazioni umane sulla base del reciproco rispetto; siamo voce che rompe il silenzio e che testimonia di tutte le volte in cui abbiamo ceduto invece di consentire, abbiamo capitolato invece di opporci, ci siamo sottomesse invece di ribellarci. Ma abbiamo bisogno di orecchie pronte ad accogliere i nostri racconti e di luoghi dove far dialogare i nostri figli e le nostre studentesse.

Vogliamo e chiediamo che la strategia delle tre “p” — punire, proteggere, prevenire — della Convenzione di Istanbul, che il nostro Paese ha ratificato nel 2013, non sia più lettera morta, e che si insegni, con le parole (scritte e orali) e con l’esempio, che l’amore, con la gelosia e il possesso, non c’entra nulla, e che nessuna persona ci appartiene, nessuno ci ripara, nessuno ci colma.

Dietro la piaga endemica delle violenze di genere c’è sempre l’idea che una donna appartenga a un uomo, l’illusione che sia lei la responsabile dei fallimenti di un maschio, la mancanza di pietà e di empatia, il narcisismo, il patriarcato, la gelosia, il possesso.

Noi donne ci siamo, la misura è colma e non c’è più tempo: non vogliamo più svegliarci la mattina con la notizia che un’altra di noi è stata massacrata, e siamo ormai pronte, come ha detto Elena, a bruciare tutto.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *