Pasdaran ucciso, l’Iran studia la reazione: colpire Israele o attaccare le basi Usa

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Il conto alla rovescia è cominciato ma tempi e modi della rappresaglia sono imprevedibili. Gli iraniani non sono istintivi e ponderano sempre le loro mosse con grande cautela. Lo hanno fatto tre anni fa nel decidere la ritorsione per l’uccisione del generale Qasem Soleimani, lo stratega dell’espansione dei Guardiani della Rivoluzione. E adesso nel rispondere alla morte di Seyed Razi Mousavi saranno doppiamente attenti, perché la loro iniziativa potrebbe provocare l’allargamento della guerra di Gaza all’intero Medio Oriente.

A Teheran c’è la convinzione che il raid contro il responsabile dei Pasdaran in Siria e Libano abbia varcato una linea rossa: lo considerano una dichiarazione di guerra da parte di Israele. Non avevano previsto un colpo del genere: Mousavi era nella sua residenza a Sayyida Zeinab, nel sobborgo di Damasco già bersagliato un mese fa dagli F35 con la Stella di Davide. Lì sorge il santuario della nipote di Maometto, uno dei luoghi di pellegrinaggio sciita e crocevia della rete di alleanze intrecciata dagli ayatollah: la missione che il generale portava avanti da anni era proprio quello di costruire la “profondità strategica” della Repubblica Islamica, rendendola capace di schierare le sue armi alle porte di Israele. Era stato lui a dirigere l’intervento delle milizie filo-iraniane al fianco di Bashar al-Assad prima contro la rivolta sunnita e poi contro l’Isis. Ed era lui a coordinare i trasferimenti di razzi e droni agli Hezbollah libanesi e alle altre formazioni attive tra Siria e Iraq.

Quando il 3 gennaio 2020 Soleimani era stato ucciso a Baghdad dagli americani, la Guida Suprema Ali Khamenei aveva ordinato una vendetta «diretta, proporzionata e condotta in prima persona dall’Iran»: cinque giorni dopo è stato lanciato un attacco missilistico potente ma simbolico contro due basi statunitensi in Iraq, senza causare vittime. All’epoca gli ayatollah hanno scommesso sul futuro, sperando che le elezioni negli Usa avrebbero sconfitto Trump e riaperto la possibilità di negoziati con la Casa Bianca. Ora la situazione è completamente diversa e viene registrata una pressione crescente sul presidente Raisi perché sia scatenata una dimostrazione di forza senza precedenti.

La prima domanda è quale sarà l’obiettivo: Israele o gli Stati Uniti? La priorità per i Guardiani della Rivoluzione è l’espulsione delle truppe americane dai capisaldi creati in Siria e in Iraq per la lotta contro Daesh. Dal 18 ottobre ci sono stati 121 attacchi contro questi fortini: l’ultimo il giorno di Natale ha preso di mira l’aeroporto curdo di Erbil – sede pure di un contingente italiano -, provocando tre feriti. Il Pentagono ha reagito bombardando ieri un deposito iraniano a Hilla, nell’Iraq centrale: un’azione condannata dalle autorità di Baghdad, che l’hanno definita “un atto ostile”.

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Teheran può decidere di rispondere alla morte di Mousavi colpendo proprio gli americani in Iraq, dove può pilotare i movimenti politici sciiti per spingere il governo a tagliare i legami con Washington. Sarebbe la mossa più utile per perseguire i suoi interessi. Oggi però l’intero mondo musulmano guarda a Gaza e l’ala dura degli ayatollah chiede di portare la sfida nel cuore di Israele.

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Nel loro arsenale ci sono missili balistici e droni in grado di raggiungere lo Stato ebraico. Più volte i Guardiani della Rivoluzione hanno messo in scena esercitazioni spettacolari simulando i lanci e distruggendo riproduzioni della centrale nucleare di Dimona. Un’incursione del genere però dovrebbe fare i conti con il triplice scudo delle difese israeliane e soprattutto rischia di innescare uno scontro mai visto prima. Una guerra che potrebbe essere usata dal regime per azzerare ogni dissenso interno ma che comporta incognite enormi, tali da avere convinto finora il regime teocratico a evitare provocazioni. Dopo il 7 ottobre, tutte le azioni contro Israele sono state condotte esclusivamente dagli alleati: i più attivi sono stati i più lontani, gli Houti yemeniti, che hanno scagliato ordigni a lungo raggio e sono riusciti a bloccare il traffico mercantile nel Mar Rosso.

Seyed Razi Mousavi con Qasem Soleimani

L’alternativa è delegare la rappresaglia alle forze che Moussavi aveva armato. In Siria ci sono milizie sciite di ogni nazionalità con dozzine di sigle e postazioni a pochi chilometri da Israele: sono le pedine più sacrificabili nel grande risiko iraniano. Oppure Teheran può imporre agli Hezbollah di aumentare il volume di fuoco, trasformando i duelli sul confine libanese in una offensiva missilistica: i combattimenti si stanno intensificando di giorno in giorno. Le Israeli Defence Force però hanno tre brigate di tank pronte a varcare la frontiera: «Siamo in guerra su molteplici fronti – ha dichiarato ieri il ministro della Difesa Gallant – e veniamo attaccati da sette differenti arene. Chiunque agisca contro di noi è un potenziale bersaglio, non c’è immunità per nessuno».

Ogni mossa comporta il pericolo di creare una situazione imprevedibile, mentre gli ayatollah cercano sempre di controllare lo scenario. Per questo non è escluso che, come nel 2020, si limitino a una ritorsione simbolica e investano sul futuro. Hanno già cominciato a farlo: l’Aiea, l’agenzia atomica dell’Onu, ieri ha annunciato che l’Iran ha triplicato la produzione di uranio arricchito. Dalla fine di novembre gli impianti di Natanz e Fordow hanno incrementato il ritmo da tre a sei chili al mese. L’arricchimento è al 60 per cento, a un passo dal 90 per cento necessario per la costruzione della bomba: l’ordigno che cambierebbe tutti gli equilibri di potere nel Medio Oriente.

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