Scampate ai lager libici, sfruttate tra i campi della Maremma: il lato oscuro dell’idillio toscano

Pubblicità
Pubblicità

Nei borghi turriti c’è il paradiso: le case antiche scelte da artisti, intellettuali e manager per vacanze in un’atmosfera rinascimentale. Nei poderi, a pochi chilometri di distanza, c’è l’inferno: braccianti straniere umiliate e sfruttate, costrette a lavorare sotto il sole per dodici ore. Accade nella Maremma grossetana dei casali con piscina, nei dintorni di Arezzo dove si moltiplicano i castelli trasformati in resort, nella Val Cornia livornese che sta diventando l’ultima frontiera dei viaggiatori illuminati.

È il lato oscuro dell’idillio toscano, una violazione di qualsiasi diritto a danno soprattutto di donne straniere che qui sembrano invisibili: vengono prelevate prima dell’alba dai furgoni dei caporali e al tramonto scompaiono. Quasi una beffa per queste persone spesso arrivate dall’Africa, sopravvissute alle violenze dei trafficanti e alla traversata del Mediterraneo. Per poi ritrovarsi in mercé di altri aguzzini, trattate come “animali” – come testimonia una di loro – nelle coltivazioni che producono ortaggi, vini e oli di qualità per gli scaffali della grande distribuzione: dietro i sapori autentici della cucina più celebrata c’è pure il loro dramma.

“Certo, la situazione in Libia è peggiore perché possono spararti – spiega Mary, venuta dalla Nigeria, mentre tiene un neonato sulle spalle e fa le treccine all’altra figlia di quattro anni – ma lì non accadeva che lavorassi senza essere pagata. Qui in Toscana ho fatto la vendemmia, riempito cassette di pomodori, cipolle, insalata, spinaci dalle 7 del mattino alle 18.30. Pure quando ero incinta, fino al settimo mese. Tante volte poi però i caporali mi hanno pagato molte ore meno del dovuto. È tutto molto difficile”.

E lo dice una donna che rischiato la vita sul barcone per la Sicilia: “Il viaggio in mare è stato terribile. Ho visto persone morire, mi sono salvata per miracolo: dopo lo sbarco mi hanno ricoverata in un ospedale italiano per una settimana”.

Alcune indagini della Guardia di Finanza negli scorsi mesi hanno aperto uno squarcio nella cappa di silenzio che protegge questo business crudele. Adesso un’inchiesta dell’ong WeWorld in collaborazione con Tempi Moderni ha setacciato in maniera sistematica per sei mesi le spietate condizioni delle lavoratrici nei campi dove crescono i carciofi violetti, le uve DOCG, i pomodori di prima scelta. Con grande difficoltà hanno ottenuto le testimonianze delle persone che soffrono un doppio e talvolta triplo sfruttamento: “Siamo donne, straniere e nere. Ci danno molto meno che agli uomini. Quanto? All’inizio promettono anche 5 euro l’ora per quasi dodici ore al giorno poi a fine mese nella busta ce ne sono solo seicento”.

“Dalla Libia all’Italia solo per venire ancora sfruttata”

Le donne nigeriane ad esempio vanno direttamente dai centri d’accoglienza ai poderi: pianure fitte di piante o di alberi che proseguono a perdita d’occhio. Avvicinarle nelle coltivazioni è impossibile. Sono sorvegliate da guardiani brutali: “Ci dicevano sempre ‘Veloce, veloce!’ e non avevamo mai pause. Solo qualche minuto anche per bere. Dovevi mangiare praticamente di nascosto. Alcune non mangiavano nemmeno, aspettavano la sera per il pasto al centro d’accoglienza”.

“La stagione più dura è quella dei pomodori”, aggiunge Mary. “Lavoravamo anche nelle ore più calde. Non c’era ombra. Non avevi scampo. Mio marito ha visto che stavo male e si è lamentato, ma non ci hanno dato neanche un cappellino”. Pure l’inverno è duro. Sonya, cittadinanza indiana, ha avuto un aborto spontaneo: “Il dottore del Pronto Soccorso ha detto che trascorrevo troppe ore in piedi tutti i giorni. E poi tante ore con le mani immerse nell’acqua ghiacciata per lavare gli ortaggi e la frutta. Non avevamo guanti: facevamo tutto a mani nude. L’acqua ghiacciata è tremenda, ti gela tutto il corpo”.

Guai a lamentarsi. In Val Cornia le insultavano: ”Siete animali! Siete schiave!”. La romena Adriana porta i segni di questo logoramento: “Dopo anni passata a stare piegata e a raccogliere carciofi, spinaci e meloni, oggi cammino male, ho difficoltà a muovere la schiena, ho l’artrite alle mani”.

La loro vita è nelle mani dei caporali, quasi sempre pakistani e in rari casi indiani: sono loro a decidere quali saranno ingaggiate, quando e come verranno retribuite. Le prelevano con furgoni dai vetri scuri e a fine giornata le riportano via: non hanno nessun rapporto con le comunità del luogo, sono come fantasmi.

“Il padrone non c’era quasi mai con noi – prosegue Sonya -. Faceva tutto un giovane caporale del mio Paese. Il padrone si fidava completamente di lui, ma lui se ne approfittava. Un paio di volte ci ha maltrattate davanti al padrone, forse per fargli vedere quanto era bravo”.

L’aspetto più inquietante evidenziato dall’inchiesta realizzata dal ricercatore Federico Oliveri per WeWorld e Tempi Moderni è come in Toscana si stia affermando un nuovo modello di agricoltura che in nome del profitto riveste con un’apparenza di legalità i metodi illeciti. Uno stil novo che abbatte i rischi e sorregge la rispettabilità degli imprenditori, grazie a schiere di professionisti compiacenti che coprono con documenti, certificati e cedolini una realtà che viola le regole e la dignità delle persone.

Molte volte le braccianti firmano contratti regolari, che non vengono rispettati. Tutto è manipolato: si registrano il minimo delle ore e delle giornate, si gonfiano le deduzioni, si omettono alcune voci del salario. C’è un dato che permette di capire questa evoluzione dello sfruttamento: la Toscana è la seconda regione dopo la Puglia per numero di ore di lavoro “appaltate” a “società contoterziste”: sono le “aziende agricole senza terra”, che forniscono braccia ad altri.

Partite Iva individuali, srl o cooperative, in molti casi gestite da stranieri, che mettono a disposizione manodopera con costi estremamente bassi. Il padrone fa un contratto che comprende ogni aspetto dell’attività agricola: è consapevole che solo violando le regole quei risultati saranno raggiunti, ma non è responsabile davanti alla legge. Così i prezzi stracciati dei discount o l’offerta speciale delle primizie nei supermarket di marca di Firenze o Milano vengono pagati dalle persone più vulnerabili: le braccianti straniere, l’ultima ruota di un carro che gli nega qualsiasi possibilità di negoziare salari e orari.

“Quando abbiamo chiesto un aumento ci hanno minacciato – dichiara Adriana -. Non avevamo quasi più soldi da mandare a casa in Romania, per mia madre e i miei due figli. Uno di loro è malato, ha bisogno di cure”.

La nigeriana Grace è stata vittima della tratta e poi si è ritrovata nelle aziende agricole aretine: “Non pensavo che il lavoro sarebbe stato così duro. Mi consideravo forte, ma ho dovuto ricredermi. Non era solo stanchezza fisica. A volte mi sentivo stanca dentro: sentivo gli occhi degli uomini che lavoravano con me sempre addosso”. Molestie e abusi sessuali sono frequenti: “Ho sentito di una romena che si era rifiutata di ‘andare in bagno’ con il padrone italiano – riferisce Sonya -. Allora lui l’ha insultata e licenziata da un giorno all’altro”.

Ad Arezzo Sonya ha cercato di aiutare un’altra giovane, una bengalese di 23 anni rimasta orfana perché il padre era morto nei cantieri di Marghera. Lei si occupava di mantenere la madre: “Tutti sapevano che il caporale andava a letto con quella ragazza, altrimenti non avrebbe lavorato più. Mi disse che il padrone sapeva tutto perché gliene aveva parlato il caporale. E stava bene a tutti. Alcune volte anche il padrone la toccava mentre lavorava. Lei faceva finta di nulla. Lasciava correre. Ma so che soffriva tantissimo”. Un’omertà radicata: “Quando il caporale o il padrone ti ordinano di fare qualcosa, devi obbedire! Quelli ti mandano subito via e prendono subito un’altra”.

“In Toscana abbiamo scoperto donne che hanno già subito ingiustizie e sfruttamento, prima di riviverlo nei campi – commenta Margherita Romanelli, coordinatrice area progetti Europa & Advocacy di WeWorld -: proprio per questo spesso sono disposte a sopportare un lavoro che le priva dei più basilari diritti umani. Bisogna intervenire per combattere quelle condotte imprenditoriali irresponsabili che creano gravi violazioni alle braccianti, ma anche ai consumatori che sempre più richiedono prodotti etici e si trovano, loro malgrado, ad essere parti inconsapevoli di un meccanismo di prevaricazione”.

Mary ci parla da un podere dove ogni ulivo ha il suo canale di irrigazione e i filari delle vigne sono perfetti: le piante di pregio vengono trattate meglio delle persone. “Quando ho visto al supermercato i prezzi della verdura che raccolgo, mi sono chiesta perché ci pagano così poco…”.

In Toscana però ci sono sindacati e istituzioni pronte a sostenerle, anche se chi denuncia sa che non troverà più un lavoro. Come è successo a Ecaterina: “Ho 55 anni, lavoro nei campi da quando sono arrivata dalla Romania, quasi tredici anni fa. Prima non mi pesava così tanto. Ora sento di non riuscire più ad alzarmi quando mi piego a terra. Cosa farò, dove andrò se mi licenziano? mi chiedevo. Chi darà lavoro a una donna straniera, vecchia e debole? E così andavo avanti, sopportando il dolore. Poi ho detto basta”.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *