“Vidi un bambino. Poi l’esplosione che lo fece a pezzi”. La testimonianza di Albert Innerbichler, un sopravvissuto di via Rasella

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«Ero in via Rasella, ricordo bene quella mattina, il boato dell’esplosione mi ha accompagnato in tante notti».

Albert Innerbichler (1914-2002) è uno dei sopravvissuti, fotografato e intervistato nel 1996 nel clima di polemiche scatenate dalle udienze del processo a Erich Priebke (Maurizio di Puolo, Damnatio Memoriae. Personaggi, luoghi e storie in 640 fotografie dall’archivio Metaimago, Gangemi, 2019). Tutto ha inizio nel cimitero militare tedesco di Pomezia durante una cerimonia in ricordo dei caduti del 23 marzo 1944, per tutti la stessa data incisa nella lapide. Il custode del cimitero mette in contatto il fotografo con il militare testimone frequentatore delle cerimonie annuali. Tra i due una telefonata rapida per fissare un incontro in una malga in Alto in Adige (San Giovanni, Valle Aurina) dove si svolge una lunga conversazione di fronte a un registratore. Due mini cassette il bottino della caccia al tesoro, rovinate dal tempo ma con audio in grado di permettere a un’amica docente di tedesco (Britta Roch) di tradurre il testo del colloquio. Le parole del soldato del Bozen a distanza di decenni riavvolgono il nastro degli eventi fino a quella mattina lontana quasi ottant’anni: «Proprio quel giorno e solo in quel giorno avevamo fatto delle esercitazioni. Erano rimaste munizioni, i fucili non erano del tutto scarichi».

E come si avvicinano a via Rasella? «Ognuno portava le sue pallottole. Ogni giorno le stesse strade, il comandante di plotone sul lato destro e i cinque soldati in riga con fucili carichi. Ma quel giorno il tenente ha dato ordine di scaricare i fucili, le canne dovevano essere vuote. Ma la cosa più strana è che i comandanti erano tutti avanti, in testa alla colonna, mai accaduto in precedenza».

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A domanda precisa risponde senza dubbi: «Sì, sicuramente sapevano. Si percepiva che c’era qualcosa di strano nell’aria, qualcosa non andava per il verso giusto. Ero nel primo plotone nell’ala destra, all’esterno, nella prima fila direttamente dietro i sottufficiali».

Da qui il racconto diventa un fiume in piena di dettagli e ricordi che si sovrappongono rapidamente: «Cantavamo spesso e malvolentieri, canti sud tirolesi. Chi si rifiutava veniva punito in caserma con delle flessioni o camminando sulle ginocchia. Il clima tra noi era durissimo dovevamo essere feroci e implacabili. Quando la bomba è scoppiata stavamo cantando. Ricordo bene che mentre salivamo per la strada un bambino ci viene incontro scendendo sul lato sinistro. Allo scoppio della granata erano rimasti solo frammenti del suo corpo, anche a un mio amico che portava bombe nello zaino è capitata la stessa sorte. Riconosciuto solo grazie alla medaglietta che indossava».

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Il bambino dilaniato dall’esplosione era Pietro Zuccheretti, gemello di Giovanni anche lui ritratto in foto nelle pagine del volume dedicate al 1944. Ma cosa accade in quei momenti concitati, cosa si ricorda? «Ho visto il carretto con la bomba sul lato destro e mi sono spostato per evitarlo verso sinistra, al momento dell’esplosione non ero ancora arrivato alla fine della strada. Ogni plotone era composto di sei file da cinque, il terzo e il quarto sono stati quelli maggiormente colpiti».

La scena gli è rimasta impressa: «Non sono caduto. In piedi non potevo sparare avevamo i fucili scarichi, dalle finestre ci colpivano, era tutto organizzato. Noi inerti e loro armati e organizzati. Chi poteva risponde al fuoco, eravamo ben addestrati per colpire i nostri nemici, senza pietà». Si fa avanti nel colloquio la moglie, con coraggio prende la parola: «Ho saputo subito anche io dell’attentato. Non avevo una radio, ma un vicino, il calzolaio, ne aveva una e mi ha riferito di aver sentito che c’era stato un attentato a Roma alla undicesima compagnia, che ne erano morti trenta. Ero scioccata non sapevo se mio marito stava bene». Nel caos la fuga di chi poteva: «Il capo plotone e l’ufficiale più vicino sono fuggiti subito correndo in avanti, senza voltare più lo sguardo indietro, a non rivedersi più». Una fuga che sembra una rotta. E il dopo ferisce anche l’orgoglio dei militari addestrati per controllare Roma e colpire i resistenti: «Dopo quel giorno di marzo il mio battaglione è stato trasferito alla spicciolata individualmente con i mezzi più diversi. Io sono finito in carcere a Bolzano perché mi ero allontanato per salutare mia moglie. Sono rimasto dentro per dieci settimane, siamo stati interrogati in 35, volevano indagare su chi era rimasto fedele al Führer e chi no, chi era considerato traditore. Siamo stati puniti e trasferiti a Danzica e poi a Minsk. Sono tornato in Italia nell’autunno del 1946, in Russia è stata durissima non sapevamo se saremo mai tornati da moglie e figli». In conclusione lo spazio alla memoria successiva: «Non ne ho mai parlato né in paese né altrove. Rispondo ai miei figli quando mi chiedono qualcosa, il minimo. So poco anche del rientro di Priebke. L’uccisione delle vittime è stato uno shock, ne ho solo sentito parlare; ma per loro erano solo numeri, anche gli ostaggi. Anche per noi soldati solo numeri e ordini di una guerra, dovevamo obbedire e basta».

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