Attacco alla base segreta in Giordania, uccisi tre soldati Usa. Biden: “Colpa dell’Iran, risponderemo”

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Il drone carico di esplosivo è arrivato nell’oscurità, senza venire avvistato dalle difese contraeree. Si è diretto sulla piccola base segreta americana, chiamata in codice “Tower 22”, creata in uno dei punti più caldi del pianeta: la zona della triplice frontiera, dove si incrociano i confini di Siria, Iraq e Giordania. Poi l’ordigno si è schiantato sul dormitorio dei soldati, uccidendone tre mentre altri 34 sono rimasti feriti, in gran parte però solo dall’effetto dell’onda d’urto.

Dall’inizio della crisi di Gaza per oltre centocinquanta volte le milizie filo-iraniane hanno preso di mira le installazioni statunitensi in Iraq e in Siria ma missili e droni erano sempre stati intercettati. Ieri sono riuscite a realizzare una strage, varcando una linea rossa che rischia di provocare l’escalation in tutta la regione. Non a caso, l’annuncio delle prime vittime statunitensi dal 7 ottobre è stato dato dal presidente Joe Biden: «Sappiamo che l’attacco è stato condotto dai gruppi radicali sostenuti da Teheran. E non abbiamo dubbi: la faremo pagare ai responsabili».

Per la Casa Bianca si apre un altro fronte incandescente del confronto con Teheran: nel pieno della campagna elettorale il presidente non può mostrare esitazioni. Lo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson, ha subito dichiarato: «L’America deve dare un messaggio limpido come il cristallo al mondo intero: gli attacchi contro le nostre truppe non saranno tollerati».

La strategia degli ayatollah è chiara: mandano all’assalto le loro pedine per cercare di trascinare gli Stati Uniti in un coinvolgimento su larga scala nel Medio Oriente, che li faccia apparire agli occhi dell’opinione pubblica araba come militarmente schierati al fianco di Israele. Un’operazione portata avanti grazie all’arsenale degli Houti yemeniti che paralizzano la navigazione nel Mar Rosso. E grazie a dozzine di formazioni sciite attive in Siria e in Iraq, che bersagliano senza sosta le installazioni Usa nate come presidio della coalizione internazionale anti-Isis.

Il Pentagono finora ha reagito con azioni selettive. Da quasi tre settimane ci sono raid contro le postazioni missilistiche, le centrali radar e i depositi degli Houti, che però vanno avanti nelle aggressioni contro petroliere e portacontainer: giovedì hanno persino fatto fuoco contro il caccia Carney dell’Us Navy. In Iraq e Siria invece i gruppi riuniti nell’Asse della Resistenza hanno lanciato dozzine di droni, missili e razzi contro le basi americane, senza superare la barriera dei sistemi difensivi C-Ram.

Ci sono state alcune rappresaglie contro le caserme dei movimenti filo-iraniani: la più importante il 4 gennaio ha distrutto nel centro di Baghdad l’auto su cui viaggiava il capo di una delle milizie. Ogni azione però ha dovuto fare i conti con gli stretti rapporti tra queste organizzazioni e le autorità d’Iraq e Siria: il premier iracheno, espressione della maggioranza sciita, ha chiesto l’espulsione delle forze statunitensi dal Paese. Adesso però la risposta sarà molto più violenta.

C’è un altro fattore di preoccupazione. La Casa Bianca ha dichiarato che l’incursione è avvenuta «nel Nord-Est della Giordania, non lontano dal confine siriano». La monarchia hashemita è uno degli alleati più fidati di Washington ma regna sua una popolazione composta per quasi metà di palestinesi: la mobilitazione per Gaza è massiccia e ci sono pressioni dei movimenti islamisti esteri per trasformarla in rivolta aperta. Il Paese ospita almeno tremila militari americani, che tengono un basso profilo: l’esistenza di alcune installazioni non è mai stata ufficializzata e non compare neppure nei documenti del Pentagono.

È il caso di “Tower 22”, centrata dall’attacco di ieri. Si tratta di un fortino nel deserto a ridosso del confine siriano. Viene utilizzato per le spedizioni delle forze speciali nella terra di nessuno che permette lo spostamento dei terroristi del Califfato tra Iraq e Siria, ma serve pure per controllare le strade usate dai Guardiani della Rivoluzione per rifornire le loro creature. Si trova venti chilometri a Sud dell’aeroporto siriano al-Tanf, un grande caposaldo del Pentagono. Da metà ottobre le brigate armate da Teheran hanno cercato invano di bombardare al-Tanf. Ieri prima dell’alba hanno spostato il tiro, scegliendo un obiettivo che evidentemente era meno protetto. Ora l’America piange i primi caduti di una missione sempre più simile a una guerra. «La risposta sarà difficile. Ma se non travolgerà i responsabili, rappresenterà un colpo significativo alla nostra sicurezza – ha detto John Spencer, docente all’accademia di West Point –. Il nostro tentativo di contenere il regime iraniano non ha funzionato».

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