Attentato a Mosca, c’è una pista turca: i due terroristi venuti da Istanbul. E i dispersi sono ancora 143

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MOSCA – Si faceva chiamare “Abdullokh”, in arabo “Servo di Dio”, Shamsidin Fariduni, il 25enne tagiko che gli investigatori russi considerano l’organizzatore dell’attacco terroristico alla Crocus City Hall, alla periferia di Mosca, rivendicato dall’Isis-K o Khorasan, ramo afgano del gruppo jihadista. Radio Svoboda e il progetto investigativo Sistema hanno rintracciato i suoi profili social, compreso l’account Telegram dove, secondo il suo interrogatorio, «circa un mese fa» sarebbe stato contattato da un «assistente del predicatore» che gli avrebbe offerto 500mila rubli, circa 5mila euro, per compiere l’attentato. È invece su Instagram che si trova la traccia dei suoi soggiorni in Turchia: il 23 febbraio Fariduni pubblicava otto foto, sei delle quali scattate presso la moschea Fatih di Istanbul, nell’omonimo quartiere, il più conservatore della città. Come un altro dei quattro attentatori, il 30enne Saidarkrami Rachabalizoda, Fariduni si trovava in Turchia per il vizaran, il prolungamento del permesso di soggiorno senza visto nella Federazione Russa. Fariduni era arrivato il 20 febbraio per ripartire — ha detto — il 4 marzo, a bordo dello stesso volo di Rachabalizoda che era arrivato il 5 gennaio.

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I viaggi a Istanbul

Un funzionario dei servizi di sicurezza turchi ha confermato il soggiorno turco dei due attentatori, anche se ha fissato al 2 marzo la data della loro partenza. «I due sospettati, originari del Tajikistan, vivevano legalmente a Mosca da molto tempo ed erano liberi di viaggiare senza ostacoli tra Russia e Turchia in assenza di un mandato di arresto nei loro confronti», ha detto ad Afp dietro anonimato, tenendo a precisare: «Crediamo che questi due individui si siano radicalizzati in Russia, data la loro breve permanenza in Turchia». La fonte ha aggiunto che Fariduni avrebbe lasciato il suo albergo il 27 febbraio, mentre Rachabalizoda il 21 gennaio. Settimane prima rispetto alla loro partenza dal Paese. Secondo alcuni analisti, il viaggio con l’alibi del rinnovo del visto sarebbe potuto servire a ottenere il denaro necessario a coprire i costi dell’attentato. Non sembra un caso che, tra il 25 e il 26 marzo, le autorità turche abbiano arrestato 147 presunti militanti dello Stato islamico in 30 province del Paese. Retata che seguiva i 40 arresti di domenica e i 24 di sabato. In totale 211 presunti jihadisti sono stati arrestati e detenuti dalla polizia turca nei giorni seguenti all’attentato alla Crocus City Hall.

La Turchia e l’Isis

Già all’inizio della guerra civile in Siria, decine di migliaia di combattenti stranieri hanno attraversato illegalmente il confine turco per unirsi all’Isis e ad altri gruppi jihadisti e combattere contro il regime di Damasco. E quando l’Isis è stato sconfitto nel 2019, molti jihadisti hanno trovato rifugio in Turchia che, grazie alle rotte via cielo terra e mare, garantisce un facile transito verso le possibili mete di attentati. Anche i cittadini tagiki responsabili dell’attentato Isis del 3 gennaio a Kerman, nel Sud dell’Iran, erano passati dalla Turchia per andare in Afghanistan, dove erano stati addestrati.

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La presidenza turca si è guardata dal citare i movimenti turchi degli attentatori dando notizia del colloquio telefonico tra Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin. E le autorità russe non hanno commentato la permanenza dei due nella megalopoli del Bosforo, intente come sono a spingere la cosiddetta “pista ucraina” e ad accusare Kiev di complicità con l’Isis. Ieri la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, nel suo briefing settimanale, ha detto che è «estremamente difficile credere» che lo Stato islamico avesse la capacità di lanciare l’attacco di venerdì che, stando all’ultimo bilancio, ha provocato 140 morti, di cui 84 identificati, tra cui 5 bambini, ma anche 143 denunce di dispersi. Zakharova ha anche rilanciato l’accusa, non suffragata da prove, che dietro l’attentato ci siano Kiev e l’Occidente. E ha poi liquidato come «madre di tutte le fake news» una ricostruzione dell’agenzia Bloomberg che, citando fonti anonime, sostiene che alcuni stretti collaboratori di Putin avrebbero espresso dubbi sulla “pista ucraina”.

La “smentita” di Lukashenko

Il primo a smentirla è stato il suo stesso alleato bielorusso Aleksandr Lukashenko che martedì ha raccontato che gli attentatori, dopo l’attentato, avevano cercato di fuggire in Bielorussia prima di ripiegare sul confine con l’Ucraina ed essere arrestati. Una delle domande ancora senza risposta è perché i quattro non siano stati fermati prima. Meduza ha geolocalizzato l’arresto nel distretto di Navlinskij, nella regione di Brjansk, sull’autostrada M-3 “Ucraina”. Ma, stando a Vazhnye istorii, la Renault bianca a bordo della quale viaggiavano era stata ripresa almeno sei volte dalle telecamere di ricognizione del traffico per superamento del limite di velocità. Un’ora dopo l’attacco si trovava, ad esempio, nella regione di Kaluga dove avrebbe potuto essere fermata. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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