Benvenuti in Italia il paese degli scrittori che non leggono

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E così c’è un numero che lo certifica, una percentuale secca: il 30 per cento dei libri pubblicati in Italia non vende una copia. Tra tutti i libri usciti l’anno scorso circa 35mila hanno raggiunto le dieci copie vendute. Uno studio di Nomisma con i dati delle librerie indipendenti riunite da Cat/Confesercenti Emilia Romagna illumina un paesaggio triste fatto di carta: quello dei libri senza lettori.

C’entra una larga quota di volumi autoprodotti — la cosiddetta, ingannevole, editoria a pagamento. C’entrano marchi editoriali sostanzialmente privi di distribuzione. C’entra un mercato complessivo che, tutto sommato, tiene ma non cresce. E se la produzione di libri, dal 2016 a oggi, è aumentata (salvo che nel 2020 dei lockdown), nell’ultimo abbondante decennio il numero dei lettori italiani è calato.

È sintomatico di un disallineamento, o una sproporzione: potremmo dire così, fra gente che legge e gente che scrive. Un censimento risalente agli anni della Rivoluzione francese quotava a qualche centinaio gli scrittori attivi nella città di Parigi. Prendete una città come Roma, come Milano, come Napoli negli anni Venti del secolo in corso. Quanti sarebbero stati? Io so ma non ho le prove: una cospicua parte degli scriventi attivi non sono necessariamente leggenti.

C’è una oggettiva resistenza, pure a fronte di un mercato editoriale non florido, del complesso auratico intorno all’oggetto libro. Gode tuttora di un certo credito: è considerato uno status symbol esserne autori (esserne lettori fa poco effetto). Alla fine di una carriera extraletteraria (imprenditoriale, sportiva, artistica) piace avere il proprio nome in copertina. Ma più in generale, anche dove la passione letteraria non ha mai attecchito, può maturare il desiderio di raccontare, di mettere pensieri, storie, memorie nero su bianco, di organizzare qualcosa come un libro. Il pullulare di scuole di scrittura è indicativo: e si può leggerlo, nelle considerazioni di uno dei pionieri in Italia, Alessandro Baricco, come il tentativo di partecipare a una cerimonia del tè allargata, allargatissima. Una cerimonia del tè di massa. Nelle pagine de La Via della Narrazione, Baricco ha ragionato in modo non moralistico sulla fascinazione per quel gesto — scrivere — in cui «dimora una disciplina antica»: anche i non lettori o i lettori deboli possono avvertire la necessità di affidare a esso «il compito possibile di portare brevi esistenze individuali a compimento».

E così si iscrivono a un corso, cercano di perfezionarsi, o di sgrezzare un po’ la pagina, trovano la via della narrazione (o della versificazione) e poi quella della pubblicazione: tutt’altro che impossibile, nemmeno troppo faticosa. E il libro eccolo lì, destinato a essere promosso bocca a bocca, parente per parente, amico per amico. Se va bene, qualche decina di copie, un centinaio. Se va male, quasi niente. C’è da riflettere; e rigurgiti di elitarismo non portano lontano.

È bene porre qualche domanda e provare a rispondere con sincerità: caro scrittore forte/lettore debole, perché hai più voglia di scrivere un tuo romanzo che di leggere quello scritto da qualcun altro? Qual è l’ultimo romanzo che ti ha fatto saltare sulla sedia e a cui non vedevi l’ora di tornare, così come a quella smagliante, strepitosa, imperdibile serie tv?

Ma se due attività — il leggere e lo scrivere — annodate per secoli cominciano a correre su due binari paralleli, è bene che anche i professionisti (quelli che un contratto editoriale vero lo hanno) non si distraggano. Nell’indifferenza abissale che la classe politica e dirigente manifesta rispetto ai libri, il rischio è che ciascuno — scrittore bestseller o autore senza lettori che sia — si limiti a difendere il proprio. Rinunciando a uno sguardo più ampio sullo spazio effettivo e sempre più eroso che, al netto di ogni facile retorica, la lettura ha nelle giornate delle persone. E se il tempo per scrivere lo si trova, non può essere solo una questione di narcisismo.

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