Budapest, davanti al carcere dove è rinchiusa Ilaria Salis. “Sto molto male, aiutatemi a uscire”

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BUDAPEST – Fuori da un palazzo con le mattonelle rosse che porta i segni della storia (era la sede della Gestapo) e del tempo (“non avvicinarsi, pericolo crollo di intonaco”), sventola una bandiera azzurra dell’Unione europea tutta strappata.

Forse è un segno. Questo è il carcere dove da poco meno di un anno è rinchiusa Ilaria Salis, l’attivista italiana arrestata a febbraio del 2022 con l’accusa di aver picchiato alcuni neonazisti arrivati in città per celebrare il “Giorno dell’onore”, la ricorrenza in ricordo della morte dei soldati dell’Asse nel 1945 per mano dell’Armata rossa, diventata negli ultimi tempi l’occasione per radunare migliaia di nazisti e fascisti da tutta Europa.

Qui dentro hanno messo le manette ai piedi e ai polsi di Ilaria. Da qui l’hanno trascinata al guinzaglio in udienza, come fosse un animale. Qui l’hanno costretta a indossare «abiti sporchi e puzzolenti», a dormire con le «cimici nel letto».

Qui l’hanno costretta a vivere in condizioni disumane. Da qui — dove forse qualcosa sta anche cominciando a cambiare — Ilaria ancora ieri ha chiesto aiuto ai suoi avvocati, al suo Paese: «Sto male, aiutatemi a uscire fuori da questo posto» ha detto al suo avvocato Gyorgy Magyar, un ex deputato della sinistra ungherese che si occupa di diversi oppositori politici del governo Orbán.

La storia di Ilaria ha però qualcosa di diverso. Raccontata da Repubblica nel dicembre scorso, è finita oggi sui media internazionali dopo che le sue immagini in catene, trascinata da un secondino, hanno fatto il giro del mondo: l’ambasciatore italiano, Manuel Jacoangeli, ha chiesto conto al governo ungherese di quello che stava accadendo.

Due giorni fa le ha fatto visita il procuratore generale di Budapest, il secondo magistrato più importante di Ungheria, per verificare le condizioni, caso più unico che raro. Giovedì la direzione del carcere ha organizzato una sorta di “press tour” per mostrare, a favore di telecamere amiche, celle pulite, servizi igienici funzionanti, letti a castello perfetti con addirittura gli schermi al plasma.

«È vero, grazie a quello che ha fatto l’Italia, qualcosa in questi giorni sta cambiando» ha detto ieri Ilaria all’avvocato Magyar, rassicurandolo sul fatto che lei ha una tempra forte seppur è assai provata da questa lunga detenzione. Il riferimento ai cambiamenti era sicuramente alla pulizia della cella, alle condizioni minime di vivibilità seppur in una situazione difficile: in cella sono in otto, sei ungheresi, lei e una donna croata. Soltanto da poco le hanno messo a disposizione quello che serve per le pulizie.

È cominciata la stagione poi del freddo e le celle sono mal riscaldate e l’abbigliamento a disposizione molto scarso. Ma il punto non sono soltanto le condizioni. Ma anche, e forse soprattutto, la possibilità di difesa: fino a questo momento il fascicolo dell’accusa non è stato messo interamente a disposizione della difesa. Ora, invece, è stato assicurato alla Salis che questo avverrà in termini brevissimi.

Non è un particolare ininfluente: perché per quanto la questione delle condizioni detentive prescinda dal merito (la Salis rischia 20 anni di carcere per aver provocato lesioni guaribili in pochi giorni), l’insegnante italiana ha sempre respinto l’accusa di far parte di un gruppo terroristico antifascista tedesco.

Gruppo, tra l’altro, che è stato processato in Germania. Dove però nelle indagini non è mai emerso il nome di Ilaria: come fanno allora gli ungheresi a sostenere che la Salis sicuramente faceva parte di un’associazione terroristica?

Ma come si diceva, questa è una questione di merito. Il cratere che si è aperto davanti a questo palazzo dalle mattonelle rosse dal quale, allungando un po’ lo sguardo, è possibile vedere il parlamento ungherese dall’altra parte del fiume («Si riuniscono una volta al mese: in Ungheria non serve discutere…» scherza, ma non troppo, davanti a una tazza di caffè un’insegnante di una scuola qui vicino), riguardano i diritti e il diritto.

Le carceri ungheresi sono da tempo nel mirino delle Ong e dell’Unione europea. “Pugni in faccia, calci negli stinchi, pestoni: temperature sotto i 10 gradi” si legge in un rapporto del 2018 del Consiglio d’Europa. In una visita delle carceri di Budapest del Comitato per la prevenzione della tortura avvenuta a maggio scorso è stato segnalato l’uso della forza da parte degli agenti, anche con i cani. E nessuna possibilità da parte dei detenuti di poter denunciare violenze e abusi.

D’altronde dal 2009 a oggi l’Ungheria è stata ritenuta colpevole di violazioni della Convenzione da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per 612 volte. Trentacinque lo scorso anno, su 35 procedimenti aperti per le violazioni dei diritti fondamentali subiti dalle persone detenute.

«Mostrare il pugno duro nei confronti dei detenuti è un punto importante del programma della destra di Orbán» spiega un’attivista di una Ong che preferisce non venga riportato il suo nome. «Ma la stessa magistratura ha un approccio securitario. Quasi sempre». Prende il telefono e cerca una vecchia notizia: «È la storia di un gruppo di nazisti, in carcere per aggressioni violentissime. Sono stati graziati».

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