Chi era Mino Raiola, il procuratore re del calciomercato

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Mino Raiola era molto diverso da quello che sembrava ed era anzi sulla percezione sbagliata che gli altri avevano di lui che ha costruito la sua ricchezza: “Mia mamma mi diceva sempre: Mino, conciati a modo. Ma coi vestiti eleganti mi sentivo a disagio, non ero io. Presentarmi in maglietta e pantaloncini è stata la mia fortuna: mi prendevano per scemo e condurre una trattativa da sottovalutato è un vantaggio incredibile”. Il Financial Times scrisse che “se si dovesse indovinare il lavoro di Mino Raiola dall’aspetto e dall’abbigliamento, diresti: cameriere di una pizzeria di provincia nel suo giorno libero”, ma lui non si mai vergognato (anzi) della pancia prominente, dell’ascella pezzata, delle infradito, della barba mai rasata di fresco. “E poi sì, io sono nato cameriere, non pizzaiolo come dicevano molti per svilirmi. Come se ci fosse qualcosa di male e fare il pizzaiolo. O il cameriere”.

Mino Raiola, è morto il noto procuratore di calciatori

L’arte della mediazione imparata alla pizzeria Napoli

Raiola parlava sette lingue (olandese, la sua lingua madre, italiano, francese, spagnolo, inglese, tedesco e portoghese), “però penso in dialetto campano perché ha connessioni logiche più veloce”. Studiò giurisprudenza senza tuttavia laurearsi, “perché a vent’anni ero già milionario e ho potuto permettermi di smettere di pensare ai soldi”. La sua famiglia era di Nocera. Si trasferì ad Haarlem, un gioiellino di cittadina alle porte di Amsterdam, nel 1968, quando Mino era ancora in fasce, per aprire la pizzeria Napoli in Grote Markt, la splendida piazza del Mercato all’ombra della gotica cattedrale: Raiola crebbe lì e cominciò da bambino ad aiutare i suoi, prima in cucina (“Lavavo i piatti, cos’altro potevo fare? Mi piace ancora farlo, mi dà una sorta di pace pulire le cose: vedi il risultato immediato del tuo lavoro”) e poi in sala, che è il posto dove affinò il suo talento: “E’ girando tra i tavoli che ho imparato a capire le persone”, e soprattutto le loro esigenze. Tendeva a far sedere i single in posti vicini, cambiava lingua e registro a seconda di chi aveva davanti, memorizzava gusti e preferenze, personalizzava i menu, intuiva da uno sguardo se doveva essere discreto o dare confidenza e insomma imparò a trattare, mentre suo padre sfornava pizze.

Il traffico in bulbi e poi in giocatori: Roy fu il primo

Nel frattempo giocava a pallone nell’Haarlem (era un modesto difensore) e a 19 anni ne diventò il ds a tempo perso, anche se i soldi non li ha fatti muovendo i giocatori ma fondando una società, Intermezzo, che esportava bulbi di tulipani e importava prodotti alimentari da rivendere ai ristoranti italiani in Olanda, visto che molti di loro si lamentavano dei fornitori: praticamente Raiola ne divenne il procuratore. Il capitale per creare Intermezzo lo raggranellò comprando e poi rivendendo a una cifra pazzescamente superiore un McDonald’s di Haarlem. E a un certo punto, oltre che tulipani cominciò a esportare calciatori, visto che aveva preso a bazzicare tutti i club di Amsterdam: la prima operazione fu il trasferimento dall’Ajax al Foggia dell’ala olandese Bryan Roy, che lui affiancò in Puglia fino a quando il suo assistito non fu in grado di esprimersi in italiano. Aveva capito che per tenersi stretti i giocatori non bastava far loro firmare buoni contratti, ma occorreva prima di tutto aiutarli nelle cose di ogni giorno.

Morte Mino Raiola: i suoi giocatori e i colpi di mercato

Quando scovò per Zeman “un Maradona che correva”: Nedved

Durante la permanenza a Foggia entrò in confidenza con Zeman, con il quale passava serate intere a parlare di calcio. “Lui voleva un giocatore che dribblasse come Maradona, corresse 17 km a partita e si allenasse come un fanatico. E io gli dicevo: Sdengo, quel giocatore non esiste”. Però Mino si prese lo sfizio di scovarlo, uno così, rastrellò l’Europa e a un certo punto lo trovò: tre anni dopo portò alla Lazio (di Zeman), un certo Pavel Nedved, “che aveva un solo difetto: era convinto di non essere forte, altrimenti di Palloni d’oro ne avrebbe vinti tre”.

Quando Ibra scelse Raiola: tra insulti, sushi per sette e una camicia hawaiana

Ibrahimovic, il suo figlio prediletto

Nedved fu il chiavistello che aprì a Raiola le porte del grande calcio assieme a Ibrahimovic, il suo “figlio” prediletto. “Puoi togliere le virgolette, perché io per capire come occuparmi dei miei giocatori mi chiedo sempre: cosa farei, se fossero i miei figli?”. Perciò ha sempre selezionato i suoi clienti, puntando sull’affinità emotiva oltre che sulla qualità del giocatore. Con qualcuno, tipo Lukaku, non si è preso e si sono lasciati in fretta (“Separazione consensuale”), con molti altri il rapporto ha invece raggiunto strati profondi di intimità e con Ibra più di tutti. La prima volta che si incontrarono, ad Amsterdam (a presentarglielo fu l’egiziano Mido, cliente della pizzeria), Zlatan era una ragazzotto già pieno d’arroganza, di ambizioni e di oggetti che ne decretavano lo status symbol di calciatore. “Vuoi diventare ricco o il migliore al mondo?”, gli chiese Mino. “Se la risposta è la seconda, vendi subito quell’orologio, quei gioielli e quel macchinone e allenati il triplo di adesso”. Mai nessuno osò e oserà parlare così a Ibrahimovic, uno che quando entrò per la prima volta nello spogliatoio dell’Ajax disse “io sono Zlatan e voi chi cazzo siete?”. Ma Ibra obbedì alla lettera, cominciando a diventare quello che diventerà. “Ho giocatori, come lui, che mi chiamano tre volte al giorno e altri, come Matuidi, che lo fanno tre volte l’anno, ma il rapporto è strettissimo con tutti”.

Il rifiuto di fare mediazioni e di rappresentare allenatori: “Voglio essere libero di mandarli a quel paese”

Raiola è stato un pezzo unico, nella torbida galassia di procuratori, agenti, mediatori, facilitatori che popola il mondo del calcio nel tentativo di spillare ognuno la proprio quota di guadagno. Intanto, non hai mai assistito allenatori (salvo, a inizio carriera, l’olandese Martin Jol), al contrario della maggior parte dei colleghi che, infischiandosene del più diffuso dei conflitti di interesse, ha l’abitudine di contornare il tecnico di riferimento con giocatori della medesima scuderia. “Io sono felice quando con gli allenatori o i direttori sportivi ci litigo, perché vuol dire che sto facendo bene il mio lavoro. Voglio essere libero di mandarli affanculo. Se il mio avvocato facesse comunella con il pm, lo scaricherei subito”. Inoltre, non ha mai creato una sorta di “club Raiola”, mentre il mondo è pieno di società la cui proprietà più o meno occulta è riferita a un procuratore: basti pensare a Jorge Mendes, che si dice che gestisca direttamente o indirettamente almeno una dozzina di squadre tra Inghilterra, Portogallo e Francia. Mino acquistò una piccola società in Brasile, a Santa Caterina, nel tentativo di farla diventare un ponte tra Sudamerica ed Europa: durò pochi anni, fece pochi affari, se ne sbarazzò. Ha sempre rifiutato anche le mediazioni: “Il mio lavoro è assistere i calciatori, non i dirigenti”. È uno dei pochi che non abbia tenuto il piede in due o anche in tre staffe, o che facesse il gioco delle tre carte: eppure, era identificato come il prototipo del procuratore traffichino.

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La sede a Montecarlo, tra i poster di 007 e la dedica di Kean

Di soldi ne ha fatti a palate. Negli ultimi tempi guadagnava in commissioni 80-90 milioni l’anno, ma la sua società è rimasta a livello artigianale, con quattro dipendenti, qualche corrispondente in giro per l’Europa, il cugino Enzo a occuparsi del mercato italiano e un braccio destro, l’avvocatessa brasiliana Rafaela Pimenta, che negli ultimi mesi ha gestito la trattative in sua vece, a cominciare da quella per Haaland. “Noi siamo un Family Office, gli unici del mondo del calcio”. La sede è a Montecarlo, in una palazzina senza tracce di lusso in Bouvelard d’Italie, appena al di là del confine francese: quattro stanze, una sala riunioni, il suo ufficio con una scrivania, il pc e nessuna ostentazione. Alle pareti, incorniciate, le locandine dei film di 007 (“Il mio mito”), le pagine di giornale che hanno raccontato le imprese dei “suoi” giocatori e le loro maglie con autografo e dedica, tipo quella di Kean: “A Mino, che mi farà diventare una star”, benché lui gli avesse spiegato un sacco di volte che “mica dipenderà da me se diventerai un campione, ma da te”.

Il “procuratore su misura” e il metodo Haaland

Raiola si definiva un procuratore “tailor made”, su misura per la sua clientela: prima individuava il club più adatto al giocatore e poi cercava di massimizzare il guadagno, mai il contrario. È per questo che alla Juve portò il giovanissimo Pogba (“Lo voleva il Real, ma lì sarebbe stato solo uno in più”), il giovane De Ligt (“Era essenziale che prendesse lezioni da Bonucci e Chiellini”) ma non il fenomeno Haaland, perché sapeva che in Italia un attaccante di vent’anni l’avrebbero fatto marcire in panchina. Ecco, i passaggi di carriera di Haaland sono la descrizione perfetta del metodo Raiola: quando il norvegese cominciò a rivelarsi nel Molde, e aveva già gli occhi di mezza Europa addosso, preferì portarlo al Salisburgo, club di dimensioni di ridotte ma abituato a lanciare i diciottenni, a giocare le coppe e a praticare un calcio offensivo, rinunciando a diversi soldi. Un anno dopo lo spostò a Dortmund al prezzo della clausola (20 milioni) benché club assai più ricchi offrissero un sacco di più a lui, al giocatore e al Salisburgo: ma aveva ritenuto fosse il Borussia, altra squadra orientata sui giovani e sul gioco offensivo ma con ambizioni internazionali più alte, la tappa intermedia ideale per il bisonte norvegese, che difatti ha continuato a migliorare e a segnare un gol dopo l’altro. Ai tedeschi ha imposto una clausola rescissoria relativamente bassa (75 milioni) e il vincolo di restare in Bundesliga per almeno due anni in mezzo, per completare gradualmente la maturazione. In questo modo, l’estate prossima Haaland sarà perfettamente pronto per il salto di qualità definitivo e potrà andare dove vorrà (cioè al City). E visto che il costo del suo cartellino sarà contenuto (la valutazione di mercato non è inferiore ai 150 milioni), i margini di trattativa sullo stipendio e sulle commissioni saranno smisuratamente più ampi. Così alla fine ci avranno guadagnato tutti: il giocatore, tutti i club da cui è passato, che hanno avuto gol e plusvalenze in abbondanza, e naturalmente Raiola, che avrebbe potuto assicurarsi un cachet di una trentina di milioni, da condividere con la famiglia Haaland.

Il caso Donnarumma e l’asti dei tifosi

Non è vero che ha sempre e soltanto cercato di muovere calciatori e quindi soldi, mancando di rispetto ai tifosi e svilendo le bandiere: mediamente i suoi assistiti girano poche squadre e non compulsivamente (Verratti, per esempio, non ha mai lasciato Parigi) e tante volte ha consigliato ai suoi giocatori di non cambiare aria e di rinunciare alla caccia all’ingaggio a prescindere (Bernardeschi lo scaricò perché gli aveva suggerito di restare alla Juve con lo stipendio ridotto), convinto che una carriera lineare e l’habitat adattato comportino, alla lunga, rendimenti più alti e quindi ingaggi migliori. Ma con il caso Donnarumma che è finito nel mirino della rabbia popolare. “Il punto è che dovevo trattare un contratto con il Milan dei cinesi e di Mirabelli: non mi fidavo e i fatti mi hanno dato ragione”. È però vero che ha sempre fatto poco per rendersi simpatico e molto per dare un’immagine quasi sgradevole di sé: anche questa, una strategia.

La telefonata di Balotelli e gli appuntamenti di Moggi

Ci sono giocatori che lo hanno fatto dannare più di altri, tipo Balotelli: “Il suo problema è che la sua priorità non è mai stata la carriera. Da parte mia, sbagliai a portarlo al Milan: dovevo convincerlo a restare al City”. Quando abitava a Manchester, una volta Mario lo chiamò nel cuore della notte: “Mino, la casa sta prendendo fuoco”. Raiola fece un sospiro, alzò gli occhi al cielo e gli rispose con calma: “Mi commuove sapere che la prima persona cui hai pensato di chiedere aiuto sono io, ma forse è meglio se prima avverti i pompieri”. “Grazie, Mino: sai sempre dare il consiglio giusto”. Per i suoi ragazzi ha fatto di tutto e condiviso pezzi di vita, mentre con i dirigenti ha avuto problemi, perché li ha trattati tutti alla stessa maniera. Con i più potenti non scodinzolava, anzi. A inizio carriera, riuscì a ottenere un appuntamento con Moggi: a Torino alle 11. Alle undici meno un quarto suonò in sede e venne fatto accomodare in una sorta di sala d’aspetto in coda a 25 questuanti. Alle undici e un quarto se ne andò. Due ore più tardi trovò Lucianone al ristorante che pranzava con una buona parte dei questuanti. Andò al suo tavolo, si presentò e gli disse che era da maleducati fare aspettare la gente: Moggi, che era il re del mercato (ed era convinto che mettere le persone in attesa fosse un esercizio di potere) mentre Raiola non era ancora nessun, lo cacciò malamente: “Come ti chiami tu? Mino Raiola? Bene, sappi che non venderai mai un giocatore in Italia”. Anni dopo, la Juve voleva Nedved e l’appuntamento lo diede lui a Moggi: “Ci vediamo alle 12. Io sarò lì alle 11.50. Se alle 12.10 non ci sei, tanti saluti”. Moggi si presentò a mezzogiorno in punto: forse l’unica volta in vita sua in cui è stato puntuale. Il dirigente con cui in assoluto ha avuto più problemi è stato però Ferguson, con il quale litigò di brutto quando Pogba lasciò lo United; “Voleva che restasse ma dargli una miseria e nessuna garanzia. Paul disse di no e lui se la prese con me”. Anche con il Milan ha avuto rapporti infuocati, in questi anni, mentre tra i grandi club solo con il Real ha avuto legami più blandi. Ma per Haaland, con Perez si sono parlati a lungo. Per il resto, si trovano “raiolani” un po’ dappertutto. Il suo nemico più acerrimo è stato Blatter, contro il quale annunciò persino una provocatoria autocandidatura alla presidenza della Fifa, che lui definiva una specie di cosca mafiosa, solo perché voleva mettere un tetto alle commissioni e un limite al potere degli agenti.

I paradisi fiscali e il mistero dei 27 milioni di commissione per Pogba

Raiola ha guadagnato a palate, lui diceva di non sapere neanche quanto. “Non me se sono mai interessato. Volendo, avrei potuto vivere di rendita già quando avevo vent’anni”. E anche lui, con tutti i soldi che s’è fatto girare attorno, era circondato da una nebulosa piena di opacità, non tanto per la residenza a Montecarlo, come molti dei suoi colleghi, quando per l’arcipelago di società disseminate nei più svariati paradisi fiscali. Il suo nome è finito nei Pandora Papers e nei Football Leaks. E c’è il sospetto che certe ricche commissioni – tipo i 27 milioni che gli sono spettati sui 105 che il Manchester United ha pagato per riprendersi Pogba dalla Juve – fossero in realtà una copertura per una sorta di Tpo (third-party ownership), come si definisce la percentuale del cartellino di un giocatore non detenuta dal club, ma da una società esterna, pratica oggi vietata. “Ma di tutti, Raiola è sempre stato il più trasparente”, ha detto di lui Marotta. Non aveva bisogno di una giacca e di una cravatta per mascherarsi.

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