Con la fine di Navalny vince il terrore: così Putin cancella ogni speranza di cambiamento

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Per l’ultimo martirio dell’opposizione russa non ci saranno cortei di massa. La morte di Aleksej Navalnyj annienta il sogno della “bella Russia del futuro”, come egli stesso l’aveva battezzata. Consegna il Paese alla paura. Trasforma l’autoritarismo in totalitarismo. Chiunque osasse coltivare la speranza che un domani ci potesse essere un’alternativa al regime di Vladimir Putin e alla sua Operazione militare speciale in Ucraina, ora lo sa: non rischia soltanto di venire incarcerato, rischia di morire.

Stavolta nessuno ha premuto il grilletto, come avvenne con Anna Politkovskaja o Boris Nemtsov, eppure nessuno dubita che il Cremlino, seppure indirettamente, abbia ucciso Navalny, l’ultimo leader e oggi martire dell’opposizione russa.

La morte improvvisa di un detenuto politico tra le mura di una colonia penale è sempre un omicidio. E la sua responsabilità cade sull’intero sistema. Ma 300 giorni di confinamento in una cella d’isolamento in una colonia penale sperduta nell’Artico non lasciano dubbi: Putin in persona, e le autorità nel loro insieme, hanno provocato questa fine tragica che cade provvidenzialmente a un mese dalle presidenziali russe che saranno un plebiscito per Putin e a nove mesi da quelle statunitensi che potrebbero riportare alla Casa Bianca Donald Trump. Il Cremlino così si libera di ogni residua minaccia in vista del voto e di una possibile pace negoziata dall’ex tycoon.

Si potrebbe dire che è quello che fanno i regimi deboli. I poteri forti non creano martiri. Ma il Cremlino paradossalmente così dimostra la sua forza. Sa che lo shock per la morte di Navalny non si trasformerà in un nuovo slancio politico. Forte della sua impunità, Putin ne uscirà indenne, così come l’anno scorso ha superato senza subire scossoni la ribellione e poi la morte del capo mercenario Evgenij Prigozhin.

Il Cremlino aveva già tentato di uccidere Navalny con l’agente nervino Novichok. Ma Aleksej era sopravvissuto. Era stato curato in una clinica tedesca, aveva dimostrato chi ci fosse dietro all’attentato alla sua vita, aveva pubblicato un’inchiesta sul “palazzo di Putin”, lanciato appelli a manifestare ed era tornato in Russia. Dimostrando di non avere paura di niente e di nessuno. Il Cremlino non poteva permetterselo. Sulla scia del regime stalinista, ha voluto ripristinare il Terrore.

Arrestando Navalny al suo rientro, lo aveva già trasformato un triste memento dell’estrema spietatezza vendicativa del regime e un monito vivente per gli altri dissidenti. E poi lo aveva in parte neutralizzato.

La sua rete politica in Russia era stata rasa al suolo. I suoi più stretti collaboratori erano stati costretti a fuggire in esilio. E sebbene la sua Fondazione continuasse a pubblicare video sulla corruzione dell’élite putiniana, non riusciva più a mobilitare le piazze. Ma non bastava. Persino da dietro le sbarre della sua cella d’isolamento, dove soltanto pochi giorni fa era stato confinato per la ventisettesima volta, Navalny era rimasto l’unico dissidente in grado di smuovere le coscienze.

Era stato Navalny, con il suo appello rilanciato dai suoi collaboratori in esilio, a spingere migliaia di russi a mettersi in fila perché sostenessero con la loro firma la candidatura alle presidenziali di Boris Nadezdhin, l’unico a dirsi contrario al regime di Putin e alla sua offensiva contro Kiev. Candidatura respinta, com’era prevedibile, ma che aveva acceso un barlume di speranza nel cambiamento. Quella speranza che un regime fondato sul Terrore non può più avallare.

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