Cosa è la vittimizzazione secondaria e perché se ne parla

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“Vittimizzazione secondaria”. È l’espressione usata dalla segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, per definire le parole della seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, nel difendere suo figlio Leonardo Apache, indagato per violenza sessuale a Milano dopo la denuncia di una ragazza di 22 anni.

“Il presidente del Senato non può fare vittimizzazione secondaria. È per questo tipo di parole che tante donne non denunciano per paura di non essere credute”, dice, per la precisione, Schlein.

Cos’è?

Ma cosa significano quelle due parole? Cos’è la vittimizzazione secondaria? E quando avviene?

Si tratta di una forma di colpevolizzazione della vittima. Ed è in sostanza quel fenomeno per il quale le vittime di un reato, e in particolare di una violenza sessuale, subiscono una seconda aggressione. E a rendere la donna (o l’uomo) vittima una seconda volta sono questa volta le istituzioni, i pregiudizi culturali e gli stereotipi.

Le stesse autorità che dovrebbero reprimere la violenza, insomma, non la riconoscono o la sottovalutano, attuano comportamenti che fanno rivivere alla vittima le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta, minano la sua credibilità sulla base di luoghi comuni, screditano la sua vita privata o relazionale, ledono la sua sicurezza e la sua salute psichica, scoraggiano la presentazione di una denuncia, la colpevolizzano al punto da ritenerla parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto o la inducono, alla fine, ad autocolpevolizzarsi. 

Può accadere nelle aule di tribunale, nei commissariati o nelle caserme in cui si denuncia, nelle strutture ospedaliere, sui media, sui social, da parte degli autori dei reati, di chi è a loro vicino, dell’opinione pubblica o di altri. 

Al di là del caso specifico di Leonardo Apache La Russa, su cui sarà ovviamente la giustizia a fare luce, e delle parole di papà La Russa che ha mosso “molti interrogativi” sulla ragazza perché “aveva consumato cocaina” e ha denunciato “quaranta giorni dopo”, dire a una vittima di molestie che “se l’è andata a cercare” è una forma di vittimizzazione secondaria. Giudicarla per gli abiti indossati o per il suo aspetto è una forma di vittimizzazione secondaria. Delegittimare il suo racconto solo sulla base dell’assunzione di alcol o sostanze stupefacenti è una forma di vittimizzazione secondaria. Affermare, senza alcun elemento, “non ti credo”, è una forma di vittimizzazione secondaria. Così come lo è dubitare della veridicità dell’abuso perché la denuncia non viene presentata nell’immediato anche se la legge prevede che una violenza sessuale si possa denunciare entro 12 mesi.

Le definizioni

Una puntuale definizione di vittimizzazione secondaria è presente in una Raccomandazione del 2006 del Consiglio d’Europa secondo la quale “vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima”. 

Si parla di vittimizzazione secondaria anche all’articolo 18 della Convenzione di Istanbul, siglata nel 2011 e ratificata dall’Italia nel 2013, che stabilisce che gli Stati firmatari si impegnano a “evitare la vittimizzazione secondaria”.

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