Covid-19: più è grave l’infezione, più si resta immuni

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QUANTO a lungo si rimane protetti dopo l’infezione da Covid-19? Questa è una delle domande più frequenti, anche in termini di controllo epidemiologico della malattia, cui la scienza tenta di rispondere, per ora senza conclusioni certe. Un tassello nel mosaico delle conoscenze su questo tema si aggiunge ora da un’interessante ricerca, che necessita di conferme su numeri più ampi e su campioni di tessuti patologici, oltre che di sangue. Lo studio, coordinato dagli esperti dell’Istituto di Immunologia di La Jolla, in California, e pubblicato su Science Immunology, dice che quanto più l’infezione da Covid-19 evolve in forma seria tanto più a lungo sarebbe da prevedere l’immunità nei confronti del virus.

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Nelle patologie che si manifestano in modo più lieve, invece, la “memoria” difensiva potrebbe forse essere meno efficace, e quindi di minor durata. Per giungere a questa conclusione gli esperti coordinati da Christian Ottensmeier e Pandurangan Vijayanand, hanno esaminato in  trentanove pazienti con Covid-19 i linfociti T CD8+ che da un lato “entrano” immediatamente nella reazione difensiva in caso d’infezione virale attaccando il “nemico” ma che hanno il compito di rimanere come “serbatoio” di memoria in caso di nuovo contatto dell’organismo dell’ospite con il virus stesso. Analizzando le differenti caratteristiche di questi linfociti che si sono osservate nei malati gestiti a domicilio, rispetto a quelli ricoverati in ospedale o addirittura ricoverati in terapia intensiva, gli esperti hanno visto che in genere le risposte CD8+ sono state più intense e, possibilmente, durature nei soggetti ricoverati, mentre risultavano meno “efficienti”, quasi “esaurite, dopo un’infezione più leggera.

L’ipotesi è che le stesse cellule, nelle forme di malattia con un decorso migliore e non complicato, avrebbero quindi una minor possibilità di garantire una memoria a lungo termine perché proprio questi specifici linfociti T, deputati al “ricordo” del patogeno, sarebbero meno “pronti” in caso di nuovo contatto con il virus dopo un tempo più breve. Al contrario, nei casi di infezione più grave, stando a quanto riporta la ricerca, l’immunità mediata dalle cellule T CD8+ della memoria sarebbe maggiormente protratta nel tempo. Ovviamente, come rilevano gli stessi autori della ricerca, il fatto di aver studiato solo cellule prelevate dal sangue è sicuramente un limite, visto che i linfociti T CD8+ si concentrano soprattutto nei tessuti (nel caso di Covid-19 in particolare all’interno dei polmoni). In effetti sono stati pubblicati dati sulla presenza di cellule CD8+ T nei tessuti di pazienti meno gravi e non in quelli con forme severe. Ma certo l’ipotesi di poter definire con questo marcatore chi potrebbe avere una risposta difensiva prolungata può comunque essere di grande interesse soprattutto alla luce della risposta immune indotta dal vaccino.

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Che cosa succede ai linfociti

In termini generali, la memoria immunologica mediata dalle cellule T è fondamentale per la risposta difensiva: questi “Pico della Mirandola” invisibili sono infatti più numerosi ed ipersensibili, tanto che con una soglia di stimolazione anche più bassa si riattivano a fanno partire una risposta specifica contro un virus. Ma per Covid-19 sono ancora tante le tematiche da esplorare. “Al momento, trarre conclusioni di questo tipo è ancora impossibile – spiega Lorenzo Moretta, direttore del Dipartimento di Immunologia dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma – dobbiamo ancora capire quanto le cellule T sono coinvolte in questa particolare malattia. Ad esempio, in caso di influenza la reazione iniziale passa attraverso sostanze come l’interferone e linfociti NK (Natural Killer) che rappresentano la prima barriera di difesa. Poi entrano in gioco questi linfociti T, che debbono però avere il tempo di moltiplicarsi, fino a contrastare l’infezione da virus influenzale. Per il virus Sars-CoV-2 si può supporre che la memoria legata a questi linfociti sia inferiore in caso di infezione più lieve, ma non è detto che, per la persona colpita, il fatto di avere T CD8+ meno numerosi non significa meno efficienti (e quindi in grado di stimolare meno il “ricordo” a lungo termine del virus) sia sempre negativo. Il linfociti TCD8+ infatti partecipano ad una risposta eccessiva – quindi presumibilmente sono “iperattivati” – proprio nei casi in cui il quadro infettivo si complica con una sorta di patologia che è simile ad una malattia “autoimmune” in cui è la reazione anomala ed eccessiva dell’organismo e non il virus a determinare le condizioni cliniche più gravi. Lo prova il fatto che proprio per combattere l’iperinfiammazione che si crea dopo qualche giorno in alcuni pazienti, destinati ad aggravarsi, si impiegano farmaci con attività immunosoppressiva come i corticosteroidi (derivati del cortisone). In questo senso, se sul fronte della memoria immunologica chi ha un’infezione più lieve può avere un ricordo di breve durata, va detto che avere cellule T CD8+ “esaurite funzionalmente” (tecnicamente definite exhausted) come osservato nello studio potrebbe non rivelarsi completamente negativo in corso d’infezione, anche se potrebbe influire sulla durata dell’immunità naturale”.

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