Diario da Gaza – Ramadan e Venerdì Santo insieme. La gente della Striscia riscopre la fede per far fronte agli orrori della guerra

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RAFAH — È un venerdì non ordinario qui a Gaza, il terzo del Ramadan e il Venerdì Santo per i pochi cristiani che celebrano la Pasqua. Questi ultimi nella Striscia sono una minoranza – in tempi normali un migliaio di persone a maggioranza ortodossa – ma hanno un peso importante nella comunità e da sempre, durante le guerre, hanno aperto le loro case e le loro chiese per accogliere i rifugiati, come stanno facendo anche stavolta. Anzi, mai come stavolta la solidarietà tra fedeli musulmani e cristiani sembra consolidata perché tutti, nonostante la diversa religione, vivono la stessa distruzione, la stessa fame.

Per tutti, anche per chi si era allontanato dalla religione, la spiritualità non è stata mai così forte come da quando è iniziata la nuova guerra. Apparteniamo a una comunità prevalentemente conservatrice, ed è tipico di questi popoli appellarsi a Dio nei momenti di grande crisi. Per questo tutte le persone che ho sentito mi dicono che mai come ora sentono il bisogno di pregare, di avere fede, perché capiscono che soltanto un potere superiore può aiutarli a trovare la forza per sopravvivere a tutto quello che stiamo vivendo.

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Così ognuno cerca di trovare il suo Dio. A Rafah sono rimaste aperte soltanto un paio di moschee, le altre sono chiuse per questioni di sicurezza, perché sono degli obiettivi per i raid israeliani o sono state già danneggiate dai bombardamenti. Ieri mi è capitato di vedere un gruppo nutrito di persone riunite intorno a una tenda di uno dei campi profughi. Con loro c’era un imam che officiava un rito attraverso un megafono. È insolito vedere una scena del genere, di solito si prega all’aperto soltanto quando non ci sono altre moschee nelle vicinanze.

A Gaza City, nella piccola chiesa cattolica della Sacra Famiglia già colpita dai raid israeliani, si continuano a celebrare i riti, a ospitare chi ha dovuto abbandonare le proprie case, anche musulmani, e a fornire loro conforto con cibo e soprattutto amore. Qui sono confluite anche le persone che sono dovute scappare da San Porfirio, la chiesa ortodossa e la più antica della Striscia, e tutti insieme, cristiani e musulmani, pregano. Non sono stati mai così vicini.

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Il senso della religione a Gaza non è più quello di una volta, e anche la guerra non è più soltanto una guerra di religione ma una guerra politica e di interessi, legata ai rapporti, anche economici, con gli Stati Uniti e con l’Europa. A convertire lo scontro tra palestinesi e israeliani in una questione religiosa è stata soprattutto Hamas, ma purtroppo ora Israele sta facendo lo stesso errore estremizzando la situazione anche in Cisgiordania. Lì sì che ora la guerra è una guerra di religione. A Gaza no. Qui ormai è soltanto distruzione.

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