Dimissioni di Sgarbi, Meloni: accolte. Ma lui frena: “Prima ne parlo con lei”

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ROMA — Vittorio Sgarbi si è dimesso da sottosegretario alla Cultura. Anzi no. L’ultima del pirotecnico critico d’arte, il cui ufficio al ministero è stato giudicato incompatibile con i suoi molteplici impegni (e incassi) extra, è una via di mezzo tra il passo indietro e la resistenza a oltranza: il vice di Sangiuliano ha infatti deciso di restare al suo posto, ma da auto-sospeso, in attesa del ricorso alla giustizia amministrativa contro la pronuncia dell’Antitrust. Peccato che, nel frattempo, la premier in missione a Tokio abbia colto la palla al balzo e posto il sigillo sull’addio. Una prontezza che ha spiazzato il vulcanico (ex?) sottosegretario, che adesso minaccia ritorsioni e lancia pesanti allusioni su altri casi di conflitti d’interesse nel governo, con tanto di invito alla presidente del Consiglio affinché verifichi.

Ma Giorgia Meloni non ci pensa proprio. Incalzata dalle opposizioni, intende chiudere in fretta una pratica che sta imbarazzando l’esecutivo. Perciò, quando la avvertono che Sgarbi ha dato disponibilità a rimettere l’incarico, a lei non sembra vero: «Mi aspetto di incontrarlo a Roma per accogliere le sue dimissioni», liquida la questione fra un summit e l’altro. Anche perché lui «ha potuto contare su un governo che ha atteso elementi oggettivi, ora spero che non pretenda che quello stesso governo sugli altri decida su elementi non obiettivi. Sarebbe eccessivo», taglia corto la premier a proposito della richiesta di approfondire tutte le ipotesi di incompatibilità nei ministeri, a partire da quello alla Cultura. E per far capire che non esiste alcun margine di ripensamento, ribadisce: «Mi pare che Sgarbi si sia reso conto che la scelta corretta fosse quella delle dimissioni e quindi le accolgo».

Tuttavia l’uscente non si rassegna. «Sono felice che la presidente abbia ritenuto corrette le mie dimissioni che confermo e che attendo di consegnarle personalmente», esordisce. «Condivido tutto quello che ha detto, ma sottolineo che l’indagine dell’Antitrust su di me è partita da lettere anonime, e fatico a credere che questo non possa avvenire per altri membri del governo, esponendoci a una mattanza di delazioni», prevede minaccioso. Spiegando la sua nuova mossa — il congelamento dell’incarico — come una strategia giuridica suggerita dagli avvocati per risolvere «il problema procedurale del ricorso al Tar previsto nella stessa delibera dell’Antitrust». Perciò, nelle more dell’incontro con la prima ministra «per valutare insieme la compatibilità fra le mie dimissioni e il ricorso, sarebbe forse più pertinente l’autosospensione», insiste. Senza escludere l’addio definitivo, tutt’altro: avverrà comunque, «come scelta volontaria ed esistenziale», anche se i giudici amministrativi dovessero dargli ragione, «ma non voglio, con le mie dimissioni immediate, ostacolare il Tar che può invalidare la delibera Antitrust».

Non aveva altra scelta, la presidente del Consiglio. Fin dal mattino il centrosinistra era tornato a chiedere una sua presa di posizione, dopo che Sgarbi aveva accennato a una «negoziazione» con il governo sul suo caso. Di «situazione che getta le istituzioni nel ridicolo» aveva parlato la dem Irene Manzi, esortando Meloni a mettere fine a «ricatti e balletti inqualificabili». Mentre il M5S l’ha invitata «a fare chiarezza e a chiudere l’agonia», offrendo anche una scappatoia: la maggioranza voti la mozione grillina di revoca del sottosegretario, firmata anche da Pd e Avs, che resta in calendario a Montecitorio finché le dimissioni di Sgarbi non saranno formalizzate.

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