Due italiani su tre vorrebbero lavorare di meno. Vince la regola di “fare il minimo indispensabile”

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MILANO – Gli italiani vorrebbero lavorare meno. E’ il desiderio di ben due occupati su tre. Forse non sorprende, visto che nelle classifiche Ocse sulle ore lavorate in un anno siamo solitamente nella parte alta della graduatoria. E sempre più emerge una richiesta “dal basso” di rivedere l’alternanza tra tempo della vita e tempo della professione, come iniziano a testimoniare gli accordi aziendali che inseriscono la “settimana corta” nelle organizzazioni; e come segnalano le piattaforme per i rinnovi dei contratti, ad esempio quella dei metalmeccanici che proprio ieri hanno rimesso sul piatto la settimana a 35 ore.

A indagare la tendenza è anche il settimo rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale: viene fuori che il 67,7% degli occupati italiani in futuro vorrebbe ridurre il tempo dedicato al lavoro. Un’aspirazione trasversale rispetto alle età: lo desidera infatti il 65,5% dei giovani, il 66,9% degli adulti e il 69,6% degli over 50.

Fare il minimo indispensabile

Se nel mondo si è parlato di quiet quitting, ovvero la tendenza a non impiegare tutte le proprie energie sul posto di lavoro ma fare il “minimo indispensabile”, anche l’Italia non pare sfuggire a questa logica: “Già oggi il 30,5% degli occupati (il 34,7% tra i giovani) dichiara di impegnarsi nel lavoro lo stretto necessario, rifiutando gli straordinari, le chiamate o le mail fuori dall’orario di lavoro ed eseguendo solo quel che gli compete per mansione”, dice il Censis.

Restituire un senso al lavoro

Che ci sia uno scollamento tra il lavoro e la realizzazione personale, quasi fosse solo un mezzo di sussistenza per riporre i propri sogni altrove, emerge anche dal fatto che per oltre la metà degli occupati (52,1%) “il lavoro attualmente influenza meno la vita privata rispetto al passato, perché si dedica ad attività e ha valori che reputa più importanti. Condivide tale condizione il 54,2% dei giovani, il 50,1% degli adulti e il 52,6% degli anziani”. Meno sacrifici per la professione, dunque: quasi il 28% ha rinunciato a un lavoro migliore di quello attuale perché la sede era troppo distante dalla propria abitazione.

Donne, figli e lavoro non stanno insieme

Tra gli aspetti evidenziati nella ricerca, emerge ancora una volta la situazione di svantaggio che riguarda le donne. Ad esempio, con la maternità: il tasso di occupazione delle donne con figli è pari al 58,6%, quello degli uomini con figli all’89,3%. Il divario a scapito delle donne è di -30,7 punti percentuali, mentre in Germania è pari a -17,4, in Francia a -14,4, in Spagna a -19 e in Grecia a -29,1. “L’arrivo dei figli rilancia un modello tradizionale di famiglia, con l’antica divisione per genere dei compiti. Nel 2022 le dimissioni e risoluzioni consensuali dal lavoro relative a genitori con figli sino a un anno di età, hanno coinvolto 44,7 mila madri e 16,7 mila padri. Riguardo alle ragioni delle dimissioni, il 41,7% delle madri e il 2,8% dei padri si sono dimessi per difficoltà a conciliare il lavoro con la cura dei figli a causa della carenza dei servizi di cura, e il 21,9% delle madri e il 4,3% dei padri per difficoltà nel conciliare lavoro e cura dei figli a cause di problematiche legate al lavoro in azienda”.

L’analisi si sposta anche sul rapporto con le aziende, con una buona maggioranza di occupati che giudica positivamente l’attenzione alle vulnerabilità specifiche dei lavoratori. Scende invece il dato quando si parla di “condizioni basiche dei lavoratori”, ad esempio la sicurezza.

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