Gaza, in fila davanti all’ospedale: il dramma delle donne di Rafah che provano a curare i figli

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RAFAH — Davanti all’ospedale kuwaitaino nel centro di Rafah c’è una lunga fila di donne: stringono tra le braccia questi corpicini malati, feriti, doloranti ma silenziosi, in attesa che ci sia un posto, anche un angolo di pavimento dove curare i loro figli. All’interno i medici lavorano senza sosta, ma le stanze sono stracolme. Entrarci e vedere quanti piccoli ci sono lì dentro, quanto soffrono, mi ha fatto venire il mal di stomaco.

A Gaza, la maggior parte dei bambini, dei bambini sopravvissuti, è malata. Nutrirli è sempre più difficile, come lo è trovare dell’acqua pulita per farli bere o per lavarli. Secondo il ministero dell’Istruzione, più di 8mila bambini sono stati feriti, molti di loro hanno subito amputazioni anche perché i centri sanitari rimasti in piedi non hanno le medicine e gli strumenti adatti per curarli. Avrebbero bisogno di essere portati con urgenza fuori dalla Striscia, ma ogni giorno riescono a uscire tra le 10 e le 20 persone, nulla rispetto a quello che servirebbe.

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Nejwa ha 15 anni, siamo parenti alla lontana, anche lei è stata ferita e rischia di perdere l’occhio e un braccio. L’unico ospedale in grado di curare gli occhi era lungo la via Nasser, a Gaza City: è stato distrutto dagli israeliani, che ora hanno preso di mira anche il principale ospedale del centro della Striscia; tra poco pure quello non sarà più utilizzabile. L’unico modo di salvare Nejwa è farla curare all’estero, ma finora non siamo riusciti a farla uscire da Gaza.

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Quasi tutti i bambini qui sono traumatizzati e anche questo peso ricade sulle donne, che in una società conservatrice sono quelle che pagano il prezzo più alto della guerra. Prima avevano il compito di mandare avanti la casa e la famiglia, di accudire i figli. Ora non riescono a dar da mangiare ai bambini, a farli curare, devono fare i conti con i loro traumi ma non hanno i mezzi per gestire questo tipo di situazioni. Hanno perso le loro case, che significa aver perso la capacità di sopravvivere. Non hanno più la loro privacy, né l’igiene di cui hanno bisogno. Ci sono aule dove vivono più di cinque famiglie, costrette a fare tutto insieme, e questa situazione genera una grossa pressione sociale. L’unica cosa positiva è che in questa situazione sembra essere diminuita la violenza all’interno delle coppie e tra le famiglie.

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L’ultima settimana è stata devastante, di raid senza sosta. Ieri notte finalmente è tornata un po’ di calma e siamo riusciti a dormire. Ora sentiamo il rumore delle bombe a Khan Yunis, più “lontano”, anche se la crisi a Rafah resta la stessa. Lo stesso numero esorbitante di profughi, la stessa quantità insufficiente di aiuti. Finalmente hanno aperto le panetterie e ci sembra un miracolo perché qui il pane è come l’acqua, l’alimento principale. Ma si sono formate subito lunghe code, le persone aspettano anche 8 ore in fila per prendere una pagnotta.

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Israele sta espandendo le operazioni a Khan Yunis e dunque altri ancora si sposteranno verso la già stracolma Rafah, dove manca tutto. Nei mercati il poco che c’è ha costi proibitivi. Lo zucchero per esempio non si trova più, comprare giochi per i bambini è impossibile. L’ultima volta che sono riuscito a comprare la benzina era dieci giorni fa: un litro l’ho pagata 150 shekel, circa 50 dollari. Da allora la macchina è rimasta ferma.

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