Hanno tutti ragione | Da Capitano a Bertinotti di Meloni. L’ultima disperata corsa di Salvini per non perdere la Lega

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Questo è il numero di venerdì 16 febbraio 2024 della newsletter Hanno tutti ragione firmata da Stefano Cappellini. Per attivare l’iscrizione clicca qui

Prima delle ultime elezioni politiche i bravissimi autori del Terzo segreto di satira hanno realizzato finti spot dei principali partiti italiani. Quello sulla Lega è uno dei più esilaranti. C’è un politico del Carroccio che elenca a favore di telecamera tutti i capisaldi della società ideale salviniana (“Un Paese dove le donne fanno le donne e parlano di scarpe, dove le donne possono lavorare, ma io quando la sera torno a casa per cena devo trovare pronto…”), per arrivare a concludere: “Noi vogliamo un’Italia che si fonda sui valori importanti, la famiglia tradizionale, la difesa della nazione, la cristianità…”. A questo punto il leghista viene interrotto da una voce fuori campo che lo spettatore non può sentire e si ferma smarrito: “Come? Ah, sono le stesse cose che dice la Meloni?”. Momento di imbarazzo, silenzio, poi l’illuminazione e un sorriso: “Allora noi di più!”. E qui parte lo slogan che chiude il finto spot: “Lega, come la Meloni, ma di più!”.

Una satira più affilata di un editoriale, una devastante prognosi dei guai politici di Matteo Salvini. Alle elezioni del settembre 2022 gli elettori hanno dimostrato di non saper che farsene, di quel “di più”, e hanno scelto con gran soddisfazione il modello sovranista base. Ora, e da un anno e mezzo, il cruccio di Salvini è dover recuperare terreno rispetto a una rivale che in sostanza pensa e dice le stesse cose ma che ha il triplo dei voti e il bastone del comando. Allora Salvini si smarca, si sbatte, si arrabatta, tutto per dare un qualche senso a quell’impalpabile “di più” da opporre a Meloni, e cerca dunque di essere più di destra, fosse facile, più contro l’Europa e più a favore dei trattori, più contro i comunisti e più a favore della tradizione, più contro i cognati e le sorelle e più a favore dei generi, inchieste permettendo.

Il dramma salviniano è molto diverso da quello vissuto in passato da altri partiti ingabbiati dentro una coalizione di governo in cui erano la ruota di scorta. Fausto Bertinotti non doveva faticare a cercare argomenti e proposte per distinguersi da Romano Prodi, a Marco Follini bastava aprire bocca per allontanarsi da Silvio Berlusconi. A Salvini no. Lui ogni giorno si sveglia e deve provare a inventarsi quel “di più”: non basta il tweet contro lo stupratore, quello lo fa un Fratello d’Italia qualsiasi, serve la richiesta di castrazione chimica; se Ilaria Salis compare in ceppi nell’aula di un tribunale ungherese, bisogna dirsi dalla parte dei ceppi. Uno sforzo di belluinità che a Salvini viene anche naturale, ma che resta comunque faticoso e dall’incerta resa politica.

Salvini è al momento l’unico leader di partito in carica sopravvissuto a una disfatta elettorale, il misero 8 per cento del settembre 2022. Ci è riuscito un po’ perché la vittoria della coalizione di destra ha attenuato la botta presa dalla Lega, e un po’ perché ha potuto sfruttare l’ultima scia del credito guadagnato portando il Carroccio al mirabolante 35 per cento delle ultime Europee. Il resto lo ha fatto un partito domato da anni di dominio assoluto. Nessuno fin qui ha avuto il coraggio di fare un passo avanti per proporsi capo di una Lega desalvinizzata. Ma il credito si sta esaurendo e alle prossime Europee, a cinque anni esatti dal boom e dopo una clamorosa sequenza di errori tattici e strategici, Salvini rischia il tracollo, soprattutto se la Lega dovesse essere superata da Forza Italia e finire in coda al treno della destra italiana. Con quali conseguenze sul governo? Meloni non pare molto preoccupata dal crollo di Salvini, anzi pare bramarlo. In Sardegna lo ha umiliato sulla scelta del candidato presidente; sulla questione del terzo mandato per sindaci e governatori, voluto dalla Lega e avversato dai Fratelli, gli sta facendo un doppio sgarbo, negando una nuova corsa a Luca Zaia e gettando così tra i piedi di Salvini un oppositore interno libero da impegni istituzionali. L’ex Capitano sente vicino il capolinea, tanto da pensare di blindarsi con un congresso prima delle Europee. Dopo, potrebbe essere tardi.

Il salvinismo sarà studiato dai posteri per due fenomeni degni di approfondimento. Il primo è più personale: in un’era caratterizzata dalla estrema volatilità del consenso, nessuno ha fatto più in fretta di Salvini a dilapidare il proprio patrimonio elettorale. Forse c’entra anche il modo in cui era stato accumulato: quando l’arma principale di propaganda è il web, i consensi si perdono con la stessa futilità con la quale sono stati conquistati. Il secondo è più generale: Salvini ha guidato la più radicale trasformazione di sempre dell’identità politica di un partito. Ha portato una forza secessionista, liberista e libertaria a diventare un soggetto nazionalista, identitario e reazionario. Quanto sia stato lungimirante spostare la Lega su un mercato elettorale di ultradestra già presidiato in Italia da una forza che, nelle sue diverse denominazioni, ha ottant’anni di servizio in curriculum, è la prima domanda cui dovrà rispondere il successore di Salvini.

Faceva impressione, al recente raduno fiorentino del gruppo europeo di cui la Lega fa parte, assistere allo spettacolo di un partito che si era costruito su industrialismo, federalismo e partite Iva ospitare leader di partitini di ultradestra impegnati a sbraitare dal palco su centralità del crocifisso, antiabortismo, lotta al gender. Come Meloni, ma più piccoli e irrilevanti. Come Meloni, ma di meno.

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