Il lavoro oltre il virus: “Un mix tra casa e ufficio”

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MILANO – Non sarà quello che conoscevamo (poco) prima della pandemia, ma nemmeno quello sfrenato dell’ultimo anno e mezzo. Aziende e amministrazioni preparano la ripresa delle attività con un modello ibrido di lavoro. L’estensione dell’emergenza sanitaria a fine 2021 ha fatto sì che molte contino ancora sulla versione semplificata dello smart working, un liberi tutti destinato a finire – Covid permettendo – con l’anno nuovo.

Altre stanno gettando le basi per il new normal: “Bisognerà trovare un equilibrio tra smart working e lavoro in ufficio”, ha detto l’amministratore delegato e direttore generale di Telecom Italia, Luigi Gubitosi, al Meeting di Rimini. Per il Politecnico di Milano, dai 600mila smart worker del pre Covid si arriverà a 5,3 milioni nel nuovo corso.

“Decine di accordi imboccano la strada di mescolare remoto e presenza”, annota il presidente del Cnel, Tiziano Treu. “È un modello che funziona”. Telecomunicazioni e finanza sono le punte di diamante del movimento. Nel credito, stima la Fabi, il livello di smart working è al 50% (dai picchi del 95% di inizio pandemia). Nelle sedi di Unicredit vige la regola del lavoro misto: i dipendenti possono scegliere il remoto o l’ufficio, in base ai limiti di capienza delle strutture. Una volta fuori dall’emergenza, la strada è tracciata dal contratto collettivo di lavoro del settore e da un accordo con i sindacati aziendali: fino a dieci giorni al mese di lavoro agile. Già oggi nel grattacielo milanese non ci sono scrivanie fisse, mentre per l’accesso alle mense si seguono le indicazioni delle Faq di Palazzo Chigi: serve il Green Pass.

La Vigilanza del settore si è mossa da par suo: in Bankitalia, dopo un’analisi sul giusto mix sfociata in un apposito Libro bianco, già a luglio è stata scritta la road map. Lo standard da gennaio 2022 sarà dieci giorni al mese, massimo cento all’anno, in remoto. I pilastri: “Volontarietà” con “attenzione” alle esigenze di vita/lavoro; “autonomia, responsabilità e fiducia” tra capi e collaboratori con il focus che passa “dal luogo della prestazione al raggiungimento dei risultati”; “flessibilità di adattamento”.

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Per Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, “dettare regole rigide è sintomo di scarsa maturità: le policy più coraggiose ritagliano l’alternanza di presenza e remoto sulle mansioni e sulle persone. Le griglie fisse per affrontare i casi patologici in cui qualcuno “se ne approfitta” ricadono sulle spalle di tutti i lavoratori”.

Un caso-scuola studiato dall’Osservatorio è quello di Maire Tecnimont, “dove la prospettiva è rovesciata e la linea guida è di avere un giorno alla settimana il lavoratore in sede, per mantenere contatti e relazioni”. In alcuni casi, sono i dipendenti a voler tornare: lo notano a Satispay, tech company dove la flessibilità è di casa: le richieste di rientro in ufficio sono anche superiori alla disponibilità di posti, fissate ad ora ai due terzi del totale. In altri, come in Immobiliare.it, sono le aziende a chiedere il rientro, graduale, puntando di nuovo sul confronto quotidiano in presenza. In altri ancora vige la massima libertà.

In Bending Spoons, sviluppatore di App, fino al 2022 non è richiesto alcun obbligo di presenza. “I nostri collaboratori sono liberi di lavorare dove vogliono, purché nel rispetto dei tempi e del team”, dice il co-fondatore Matteo Danieli: nessun problema a stare su una spiaggia delle Fiji, a patto di ricordarsi che i colleghi italiani si svegliano 14 ore più tardi. Un accordo ibrido sulla bocca degli esperti è quello delle Generali: prevede che i giorni in remoto a settimana siano legati alle mansioni (da due a quattro, in linea di massima), con la possibilità di andare oltre per i neo genitori; una pianificazione delle giornate su piattaforma informatica ad hoc; contributi forfettari per le spese; limite alle 18 per le riunioni in videocall, con pausa obbligatoria di 10 minuti tra un meeting e l’altro.

Alcune grandi multinazionali sono in attesa degli eventi. In Italia, Google segue le politiche fissate a livello globale: fino al 18 ottobre è esteso il lavoro da remoto e ci saranno 30 giorni di preavviso sui piani di rientro. Quanto al vaccino, negli Usa è obbligatorio per l’accesso alle sedi e l’idea è di estenderlo agli altri Paesi, ma dipende dalle leggi locali (e in Italia, come noto, il dibattito è aperto).

Un po’ più rigidi i paletti nel settore pubblico, dove i termini generali sono disciplinati per legge. Per la pubblica amministrazione, il ministro Renato Brunetta punta al rientro in presenza alla fine di settembre. All’Inps, il lavoro agile è previsto due giorni a settimana, lasciando ai dirigenti la facoltà di aumentare questo limite. “La presenza – sottolinea a Repubblica l’Istituto – è richiesta per il personale medico e sanitario, per assicurare lo svolgimento delle visite nei confronti delle categorie di utenti più fragili”.

Alle Fs sono in smart 21mila persone (quasi tutte quelle degli uffici), mentre a regime, dall’anno nuovo, è stato approntato un piano per ampliare la platea di destinatari dello smart working e far salire da 6 a 11 i giorni mensili lavorabili in remoto: le adesioni volontarie sono già a quota 11mila. All’Enel, che in due settimane ha portato in modalità agile 37mila persone, è stato lanciato un programma di ascolto delle esigenze dei lavoratori per studiare il futuro: sarà anche in questo caso ibrido e “le singole unità organizzative definiranno se e quando lavorare in ufficio o da remoto sulla base della tipologia di attività svolte dall’unità”.

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La tendenza, dunque, è chiara: i cinque giorni in presenza al lavoro saranno per molti un ricordo. Ma che stare fuori dalla sede sia sinonimo di rimanere a casa, non è detto. Mauro Mordini guida il colosso del co-working Iwg in Italia (Regus, Spaces, Signature e Copernico) e conferma che è ancora in atto un assestamento: “Con l’emergenza protratta a fine anno, molte aziende sono nell’incertezza. Ma il processo è irreversibile”. Grossi gruppi come Standard Chartered e Ntt hanno siglato intese per dare ai dipendenti l’accesso libero agli spazi del lavoro condiviso. “Lì si creeranno sedi “intermedie”, dove team più piccoli di lavoratori potranno ritrovarsi senza necessariamente fare un’ora e mezzo di pendolarismo”. Il cambio di paradigma in vista ha aperto anche il dibattito sulla necessità di rivedere il quadro normativo, fissato dalla legge 81 del 2017 che è volutamente soft. “È uno strumento moderno, da non toccare – dice Corso – Crea uno spazio per le esigenze dei nuovi lavori della conoscenza, che richiedono imprenditorialità, flessibilità e autonomia, in un quadro giuridico estremamente vecchio. Serve piuttosto una normativa di secondo e terzo livello che renda più fluidi i rapporti organizzativi e orienti i quadri retributivi alle performance”.

Concorda Treu: “Ci sono aggiustamenti da fare a livello aziendale, ma non ho sentito nessuno lamentarsi di avere “perso il controllo” dei propri lavoratori. Semmai si rischia un auto-sfruttamento da parte di dipendenti troppo zelanti. Non a caso, la Corte di Giustizia europea ha da poco ribadito come il rispetto dei limiti all’orario di lavoro sia una tutela fondamentale della salute, anche quando non si è in sede”.

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