Israele, attacco soft all’Iran. Si sgonfia la crisi più grave

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TEL AVIV — Il ministro degli Esteri iraniano sta entrando nella sala dove è riunita l’Organizzazione per la cooperazione islamica quando una giornalista gli domanda a bruciapelo: «Commenti sull’attacco di stanotte?». «Quale attacco?», sibila il suo staff.

La crisi più pericolosa per gli equilibri del Medio Oriente, quella tra Israele e l’Iran che minacciava di innescare una guerra regionale e chissà cos’altro, si è sgonfiata ieri mattina alle 4 con innocue esplosioni in una base militare vicino a Isfahan, nel cuore dell’Iran. Un attacco «moscio», lo ha definito in un tweet il falco israeliano Ben Gvir, ministro per la Sicurezza: nei Paesi arabi diventa sberleffo, in Israele fa arrabbiare.

Lo Stato ebraico non lo rivendica ufficialmente; l’Iran lo snobba. Ma fonti del governo israeliano e americano confermano informalmente ai media l’attacco simbolico diretto alla base militare di Shekari da cui sabato erano decollati i lanci verso Israele. È una zona di fabbriche militari e siti nucleari. Il messaggio è chiaro: possiamo colpirvi ovunque.

Teheran derubrica: «Tre droni» lanciati «dal territorio iraniano» con l’aiuto di «infiltrati». Un attentato, cioè, e sventato dalla contraerea. Per il ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian «i media filo israeliani esagerano per rendere vittoria il loro fallimento». Poiché Israele non rivendica né commenta, a parte Ben Gvir, la ricostruzione si basa su speculazioni, qualche dato oggettivo e fonti anonime. Le più gettonate attribuiscono l’attacco ai caccia israeliani che lungo la via — nella terra di nessuno della Siria e poi in Iraq, da dove avrebbero lanciato i missili — si sono lasciati dietro i radar neutralizzati.

Più lontani dal precipizio

Ma anche la dinamica del blitz — che non ha coinvolto l’Arabia Saudita, evitando passi falsi diplomatici — è effetto di un piano studiato in questi giorni, ispirato certamente alla prudenza richiesta da Washington. La Casa Bianca ha lavorato dall’inizio per ricomporre la crisi. Gli stessi iraniani, prima della spettacolare ma quasi innocua risposta all’attentato israeliano contro la loro ambasciata di Damasco, hanno informato per tempo non solo le potenze regionali ma anche, indirettamente, gli americani. Una mossa che ha consentito a Israele di limitare i danni ma ha permesso comunque a Teheran di incassare un notevole dividendo politico: la deterrenza, dimostrata con la capacità di bucare l’Iron Dome e raggiungere la pista di Nevatim, da cui era partito l’attacco a Damasco.

Ma il vicolo cieco portava all’escalation. Israele aveva preparato da due mesi il colpo a Damasco contro capi pasdaran coinvolti nella pianificazione del 7 ottobre. E aveva studiato le reazioni possibili. Di fronte al primo attacco diretto in assoluto lanciato dall’Iran in Israele, e alla quantità impressionante di missili e droni, il gabinetto di guerra era pronto ad autorizzare l’attacco ai siti nucleari iraniani. Era stato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, a convincere Netanyahu a desistere scongiurando la tempesta. Ma occorreva che Israele salvasse la faccia. La diplomazia ha raggiunto Teheran, attraverso mediazioni, invitata a evitare reazioni a un attacco innocuo.

«Non siamo coinvolti in alcuna operazione offensiva — ha detto ieri il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, al G7 di Capri — posso dire solo che stiamo lavorando per allentare l’escalation». Ma sapevano: era il segreto di Pulcinella, ma a rivelarlo, a Capri, è il ministro degli Esteri Antonio Tajani: «Gli Usa sono stati informati all’ultimo minuto, non c’è stata condivisione». Teheran non contrattaccherà: la crisi forse è chiusa, può tornare la stabilità. Ma «lo scambio diretto di colpi — ammonisce Haaretz — è uno sviluppo molto pericoloso per la regione». Ora Israele si concentrerà sulla guerra a Hamas e a trovare e liberare gli ostaggi. Ieri le famiglie hanno creato una catena umana sul litorale, poi hanno bloccato l’autostrada. Ma c’è, soprattutto, lo spettro dell’attacco a Rafah: per Israele è indispensabile per chiudere i conti con Hamas, per Biden non è praticabile senza garanzie per i civili. «Non possiamo sostenere una rilevante operazione militare a Rafah», ha ribadito ieri Blinken. I bilaterali, su questo, sono in corso

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